Tra i tanti anniversari che si celebrano quest’anno (penso a Shakespeare e a Cervantes), abbiamo la pubblicazione (nel 1516) di un libretto rinascimentale in latino, Utopia di Thomas More. Fiumi d’inchiostro sono stati dedicati all’interpretazione del messaggio: che voleva dire, il futuro santo e martire, parlandoci di una comunità ideale (e pagana) che viveva secondo ragione e virtù?  Individuare una risposta anche parziale richiederebbe, ovviamente, troppo spazio. Segnalerei dunque solo due o tre cose. 



Uno: Thomas More non parlava a noi, ma all’Europa del suo tempo. In particolare, parlava a un personaggio che l’avrebbe letto sicuramente e che, però, non gradiva essere criticato, Sua Maestà Enrico VIII d’Inghilterra.  Due: non dimentichiamo che la descrizione del Paese ideale occupa soltanto il secondo libro dell’opera; il primo è dedicato ai numerosi mali che affliggono l’Inghilterra (di allora? Di oggi?), dalle enclosures alle leggi penali, dalle guerre agli oltraggi perpetrati dai potenti, in una critica amarissima di tutto il sistema sociale. Tanto amara e tanto veritiera, di fatto, da indurre l’autore a mascherarsi dietro un narratore fittizio, il viaggiatore portoghese Hytlodeus, quello che poi descriverà anche Utopia. Un narratore ambiguo, dato che il suo nome significa “colui che mente”. Tre, riguardo al cosiddetto “comunismo” di Utopia: è vero, in quel Paese non esiste la proprietà privata e tutti i beni sono in comune. In questo, però, More non è affatto un profeta del comunismo, bensì applica all’intera società l’ideale monastico. Egli era infatti particolarmente affezionato a due comunità religiose, i certosini e i francescani osservanti (due ordini poi selvaggiamente perseguitati dal re).



Per chi volesse approfondire, è appena uscito dai tipi di Ancora l’interessante saggio di Paolo Gulisano, Un uomo per tutte le utopie, che, oltre a collocare l’opera nel suo contesto storico, lo paragona a scritti di autori contemporanei (come Il Principe di Machiavelli o l’Elogio della follia di Erasmo) e traccia il percorso del genere utopico (e distopico) dalle origini ai nostri giorni.

Nel consueto stile scorrevole cui ci ha abituati, l’autore parte dalla Repubblica di Platone e passa attraverso La città di Dio di Agostino, soffermandosi però anche sulla mitologia celtica dell'”altrove”. Parlando dell’eredità di More, si sofferma poi sulla Nuova Atlantide di Bacon, oltre che sulla Città del sole di Campanella, sfiorando anche la Tempesta Shakespeariana (Shakespeare, del resto, era un ottimo conoscitore dell’opera di More e ne aveva utilizzato uno scritto storico per il suo Riccardo III). Arriva così a Hobbes e al suo Leviatano, poi all'”altrove” della nascita del romanzo, cioè al settecentesco Robinson Crusoe.



Non poteva mancare Jonathan Swift con i suoi satiricamente devastanti Viaggi di Gulliver, né l’utopia moderna di Wells; il che ci porta, inevitabilmente, alle tremende distopie Huxley, Orwell e altri. L’isola che non c’è non è neanche più un’isola, bensì uno Stato totalitario che ha trasformato il migliore dei sogni nel peggiore degli incubi. 

Ma una speranza c’è. E non solo nel Padrone del mondo di Benson. Il saggio di Gulisano si conclude infatti con uno sguardo a un “altrove” diverso da quelli inquietanti del Mondo Nuovo e del Grande Fratello che ci guarda. Vale a dire, ai mondi paralleli di Lewis e Tolkien; alla loro mitopoiesi, che non è fuga dalla realtà ma l’esatto contrario. “Quando descrivono il loro mondo sono assolutamente seri, non ammiccano al lettore, facendogli intendere che, tutto sommato, si sta scherzando mentre il mondo reale è ben altro. Quello che c’è di più bello in questa letteratura non è lo sforzo di essere il più possibile originali, ma di individuare le questioni fondamentali” (p. 156). 

Quanto al cosiddetto “comunismo” di More, esso trovò la sua più felice interpretazione nel distributismo chestertoniano, una sorta di terza via tra socialismo e capitalismo, nel tentativo di fondare davvero una società più giusta, basata non sull’abolizione della proprietà privata, né sull’esclusiva proprietà dei ricchi e dei potenti, bensì su una proprietà di tutti i beni veramente condivisa da tutti. Esattamente quanto avveniva nell’isola di More.