Giorgio Agamben, nella prefazione all’edizione garzantiana del 1991 di Res amissa, raccolta di poesie postuma di Giorgio Caproni, compie un’interessante digressione sul compito della poesia e sull’interesse che quest’ultima ha per la vita dell’uomo. Il filosofo romano individua due posizioni che si fronteggiano: da una parte ci sono “coloro che affermano l’importanza della poesia solo a patto di confonderla interamente con la vita”, dall’altra “coloro per i quali il suo importare è, invece, funzione esclusiva del suo isolamento da quella”. Per semplificare: da una parte la figura del poeta romantico, dell’esteta dannunziano, per il quale è la vita stessa a doversi trasformare, senza soluzione di continuità, in un’opera d’arte; dall’altra il profeta del “classicismo olimpico e del laicismo”, per il quale poesia e vita sono divise in ogni punto, così che la poesia si riduce inevitabilmente a un mero esercizio di stile, esibizione sterile di una téchne.
Entrambe le posizioni, secondo Agamben, sviliscono tanto la vita quanto la poesia: “i primi perché sacrificano la poesia alla vita in cui la risolvono; i secondi perché sanciscono in ultima analisi l’impotenza della poesia rispetto alla vita”. Ma se la figura del poeta come eroe romantico rimane lontana rispetto all’immaginario contemporaneo, l’acuta osservazione di Agamben ci suggerisce un interessante corollario, un’altra distinzione che tratteggia due modi di intendere la poesia che hanno animato il dibattito critico della seconda metà del secolo scorso e sono rintracciabili ancora oggi: da una parte i sacerdoti di una certa “poesia del quotidiano”, per i quali, in una realtà svuotata di significato e senza alcuna profondità, la parola poetica non può che limitarsi ad una fredda cronaca; dall’altra i ferventi sostenitori di una poesia orfica, oracolare, una poesia che si allontana dalla realtà quotidiana e si fa strumento privilegiato per dire (evocare) un assoluto distante e ultimamente disinteressato alla vita degli uomini. Da questa divisione, ancora una volta, sembrano uscirne svuotate sia la poesia che la vita. C’è però una terza via, quella di una poesia che fa l’esperienza di un’indissolubile unità tra vissuto e poetato. Una parola che scandaglia la realtà, s’impasta con la vita e la illumina. Una poesia che non crea, ma inventa (ritrova lungo il sentiero e porta alla luce). E’ la via di molti poeti della cosiddetta “terza generazione” (Sereni, Luzi, Bertolucci) e che trova nel poeta livornese Giorgio Caproni un maestro inarrivabile.
Caproni, infatti, fin dalle prime prove, sperimenta un percorso umano e letterario originale rispetto agli altri poeti della sua generazione. E’ proprio per questo motivo che per anni è sfuggito alle severe griglie della critica ufficiale, e per questo fu definito da Pasolini “uno degli uomini più liberi del nostro tempo letterario”. Agli esordi, in un momento storico in cui il legame con la tradizione era rifiutato, Caproni mantiene un aggancio saldo con la poesia pre-novecentesca, pesca a piene mani nel rigore formale della classicità, attualizzando i modi del madrigale, del sonetto, della ballata alle esigenze contemporanee e alle sue urgenze espressive. La tradizione è una trama continuamente modificata, smagliata, reinventata, e la sua poesia diventa un laboratorio incessante alla ricerca della musicalità, che è il vero tratto distintivo dell’opera del poeta toscano.
Ma cosa rende così originale il percorso letterario di Giorgio Caproni? Qual è il fuoco mai domo che infiamma la sua ricerca? Come avviene questo incontro misterioso tra “poesia” e “vita”?
Se c’è un filo conduttore che attraversa tutta l’opera del poeta toscano fin dalle prime prove, è un’urgente e ineliminabile ricerca di Dio. L’amara constatazione dell’insufficienza di tutte le cose della vita, anche le più belle – come la sua Rina alla quale rimane legato fino alla morte – introduce Caproni in questa interminabile preghiera laica affinchè un Dio si mostri. C’è un testo appartenente a “Il muro della terra”, raccolta del 1975, in cui emerge lancinante l’urlo di Caproni:“”Be?” mi fece. / Aveva paura. Rideva. / D’un tratto, il vento si alzò. / L’albero tutto intero, tremò./ Schiacciai il grilletto. Crollò./ Lo vidi, la faccia spaccata/ sui coltelli: gli scisti./ Ah, mio dio. Mio Dio./ Perché non esisti?”. In quest’alternanza di settenari e novenari, – all’interno di una struttura formale esibita e, al tempo stesso, continuamente tradita, – Caproni ingaggia la sua personale “caccia a Dio”. Il colpo è andato a buon fine, la preda è a terra con la faccia spaccata, ma non si tratta del bersaglio grosso, non è il volto che Caproni attende, quel Dio che il poeta ricerca spasmodicamente. In questi versi si trovano racchiusi tutti gli elementi della poesia caproniana: quel senso tragico della vita nel quale s’insinua un’ironia amarissima, fino al culmine paradossale della chiusa, che rappresenta il grido universale dell’uomo di ogni tempo. Questo incessante dialogo è la tensione che attraversa tutte le pagine di Caproni, mantiene viva l’opera e realizza nella poesia quell’unità di vissuto e poetato di cui parlava Agamben. Il verso, infatti, è la naturale prosecuzione dell’esperienza “religiosa” di Caproni, non è qualcosa di staccato dalla vita. E la poesia attraverso la sua traduzione formale (temi, metrica, ritmo) rende l’esperienza personale accessibile a tutti.
Il versificare melodico del poeta toscano, con il passare degli anni, lascia spazio a un ritmo sempre più essenziale, scarnificato, fatto di versi brevi, lapidari. Ma dietro un’assertività apparentemente senza scampo rimane sempre l’apertura sconfinata di una domanda umana irrisolta, mai quieta:“Tonica, terza, quinta,/ settima diminuita./ Resta dunque irrisolto/ l’accordo della mia vita?”; “Il sesso. La partita/ domenicale./ La vita/ così è risolta./ Resta/ (miseria d’una sorte!)/ da risolver la morte”. La poesia di Carponi è libera da moralismi e da tesi da dover difendere, ma si getta senza remore in mare aperto, lasciandosi interrogare da tutto. Laddove sembra affermare, nella sua insistenza e perentorietà, invece interpella se stesso e il lettore. Per esempio nella caccia disperata de “Il franco cacciatore”:“La bestia/ che – catturata – resta/ in perpetuo distante” o nei lacerti a limite dell’assurdo di “Res amissa”: “Mio Dio, anche se non esisti,/ perché non ci assisti?”. Questa ineludibile distanza che nessuna parola, nessun gesto riesce ad azzerare si fa perpetua domanda. Anche la placida rassegnazione al quale il poeta sembra approdare in alcuni passaggi (“Di questo, sono certo: io/ son giunto alla disperazione,/ calma, senza sgomenti./ Scendo. Buon proseguimento.”) è carica una lealtà tale che non può che aprire un varco, non può che lasciar intendere che la partita è ancora tutta da giocare. La poesia di Caproni è una continua pro-vocazione a Dio, proprio nel senso etimologico di “chiamare fuori”, chiamare Dio allo scoperto affinchè si mostri e si lasci afferrare, abbracciare. Ma cosa può alimentare la speranza quando nulla sembra rispondere? La realtà, l’inspiegabile bellezza di tutto ciò che vive attorno e che sembra ribellarsi all’oblio. La bellezza della moglie Rina: “Per lei,/ e solo grazie a lei, esiste/ dunque uno spiraglio ancora/ di qua d’ogni inerte speranza?…” o la bellezza della natura: “Per quanto tu ragioni, c’è sempre un topo – un fiore – a scombinare la logica. Direi che tutto nel tuo ragionamento è perfetto, se non avessi davanti questo prato di trifoglio. E sarei anche d’accordo con te, se nella mente non mi bruciasse (se non mi bruciasse la mente – con dolcezza) quest’odore di tannino che viene dalla segheria sotto la pioggia: quest’odore di tronchi sbucciati (d’alba e d’alburno), e non ci fosse il fresco delle foglie bagnate come tanti lunghi occhi, e il persistente (ma sembre più sbiadito) blu della notte.”
Ma il vertice di questa ricerca, il punto più alto in cui la ragione sembra compiersi, si trova in questi versi sempre appartenenti al suo libro postumo: “Tutti riceviamo un dono./ Poi, non ricordiamo più né da chi né che sia./ Soltanto, ne conserviamo/ – pungente e senza condono – la spina della nostalgia”. Caproni è come se intuisse che la nostalgia, quella bestia che ha provato ad assassinare, è invece la più grande risorsa, l’unica vera introduzione al mistero dell’Essere, al principio che fa tutte le cose. Sfondare il muro è riconoscere il “chi”, l’autore di questo dono affascinante e contraddittorio che è la vita. E’ questo il vero compito della poesia. E proprio per questo, Testori, in un’analisi illuminata, risponde a chi fa di Caproni uno dei vessilli dell’ateismo (definizione che lo stesso Caproni ha sempre rifiutato su di sé): “Mai, credo, la negazione di Dio è stata, come in queste poesie di Caproni, sua affermazione: quasi che Caproni avesse ingaggiato, con Dio, una battaglia, un ultimativo corpo a corpo. Ne “Il franco cacciatore” la poesia tocca uno dei suoi vertici: un vertice che è, insieme una vertigine. Anche il “ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”, su cui Montale aveva costruito l’intera sua opera […], vien qui accusato di essere rimasto aldiqua del rischio cui pure alludeva; insomma, di non aver portato i termini sul bordo ultimo e estremo della pagina. Caproni ha, invece, fatto questo, e proprio perché ha scritto le sue parole su quel bordo esse, vorticosamente mosse dalla forza centripeta che le innerva, sono tornate al centro; a far come da perno”. Il dialogo insistito, la domanda continua che nasce dalla nostalgia, anche quando nega è la più alta affermazione di un Dio, di un interlocutore. “Non lo chiederesti se non lo avessi già trovato” diceva Agostino; “qualcuno ci ha mai promesso qualcosa? e allora perché attendiamo?” diceva Pavese.
Ma questa domanda evidentemente non basta. Questo raggiungimento ultimo della ragione non è sufficiente. Che cosa manca? Quale vera domanda contiene la ricerca assillante di Caproni? Cosa è capace di oltrepassare questo limite ultimo della ragione e vincere quell’atavica resistenza dell’uomo con Dio? Di cosa c’è davvero bisogno? Anche in questo caso, con una genialità e lealtà disarmante, Caproni coglie il nodo cruciale della questione: “Se Dio c’è o non c’è è questione secondaria. Il difficile è stabilire, ammessane l’esistenza, il suo rapporto con l’uomo”.
E’ allora questo il vero tarlo caproniano che attraversa tutta l’opera realizzando quell’unità impossibile tra poesia e vita, ed è questo l’unica vera ricerca per cui vale la pena fare poesia e spendere tutto il tempo che ci viene concesso: scoprire se c’è, se mai è accaduto nella storia un fatto, un avvenimento che abbia frantumato il muro della terra. Se sia mai esistito un Dio talmente presente, talmente carnale con il quale non c’è bisogno di lottare, ma al quale ci si possa semplicemente abbandonare. “Quant’odio, nell’amore./ Quanto amore, nell’odio…”