Negli ultimi anni i “cattivi” in Tv hanno imparato a “sedurre” il grande pubblico, basti pensare alla fortuna del personaggio di Walter White, il professore di chimica protagonista di Breaking Bad. È uscito in libreria uno strumento molto utile per comprendere la genesi di questi nuovi “malvagi”: si tratta di The dark side. Bad guys, antagonisti e antieroi del cinema e della serialità contemporanei (Dino Audino editore, Roma 2016, pp. 128, euro 15) con saggi di Paolo Braga, Armando Fumagalli e Giulia Cavazza. Ne discutiamo con uno degli autori, Armando Fumagalli, docente di semiotica presso la sede di Milano dell’Università Cattolica e direttore del Master universitario di I livello in scrittura e produzione per la fiction e il cinema. 



È davvero cambiato qualcosa nei film e nelle serie televisive riguardo ai “cattivi”? 

L’arte dello storytelling ha alcune costanti universali, ma fa anche dei progressi. Oggi molti film degli anni 30 e 40 che magari all’epoca ebbero numerosi Oscar e incassarono moltissimo, appaiono irrimediabilmente datati, mentre alcuni altri (non molti, ma alcuni sì) tuttora sopravvivono e un pubblico medio può vederli ancora con molto interesse. Uno degli aspetti principali di questo progresso è il fatto che oggi si tende ad avere protagonisti e antagonisti che abbiano una dimensione interiore più sviluppata, una maggior complessità psicologica e anche una divisione molto meno netta fra buoni da una parte e cattivi dall’altra. 



Ma questo ha conseguenze sulla nostra cultura? 

C’è qualche commentatore che ha visto in questo un inquietante rimescolamento di alcuni princìpi di base della nostra civiltà. Da una parte c’è il fatto che siamo disposti a perdonare molto, forse troppo, a un personaggio solo perché ci sta “simpatico”, dall’altra il fatto che queste narrazioni eticamente un po’ estreme (pensiamo a Dexter o a In Treatment), piacciano soprattutto ai giovani e ai giovani-adulti, quasi a preparare una generazione dove i punti di riferimento morale subiscono un grosso cambiamento. 



Ma è solo qualche cambio di accento o si tratta di una vera e propria rivoluzione? 

Non penso che si tratti di una vera rivoluzione, e nel libro diamo dei motivi per questa risposta, ma è vero che alcuni cambiamenti ci sono, anche in film per il grande pubblico. Il panorama morale dei film per bambini, per esempio, ha acquisito negli ultimi anni molta maggior sottigliezza e complessità, rinunciando a un certo semplicismo un po’ manicheo: non più tutto il bene da una parte e tutto il male dall’altra. Ma anche i film dei super-eroi (la trilogia di Batman di Christopher Nolan ha innovato molto in questo senso) hanno imparato a guardare nell’anima del protagonista, e a illuminarne i punti oscuri, le debolezze, le tentazioni. Pur essendo fondamentalmente buono, spesso fino al limite dell’eroismo, avverte però in modo molto più forte e più netto l’assalto non tanto del nemico esterno, quanto della tentazione derivante dalle sue ferite profonde. O meglio, il nemico esterno spesso è potente proprio perché conosce le ferite dell’eroe e lo attacca lì dove egli è più fragile. 

E le serie televisive americane? 

Queste serie, di cui si occupa nel libro Paolo Braga in un bellissimo saggio, hanno invece fatto propria quasi una sfida esplicita, quella di poter “funzionare” con protagonisti sempre meno buoni e sempre più vittime dei loro demoni, raggiungendo dei vertici di autentico virtuosismo. Uno di questi è sicuramente Breaking Bad, un altro è House of Cards: riescono a farci “amare” – o almeno farci stare con – i protagonisti che compiono azioni moralmente errate, che a volte sono anche veri e propri delitti. Ma attenzione, questo non significa un “liberi tutti” dal punto di vista morale. Queste serie non sono il frutto di un radicale azzeramento etico. Cito dalle pagine di Braga: “Il punto chiave è il fatto che, nonostante la loro insistenza sul negativo, le storie considerate non sono nichilistiche. Non sono una celebrazione di relativismo totalizzante. Non dicono che i valori non contano, né sono un inno al male. Al contrario, attraverso l’infelicità del protagonista che si comporta male, queste storie ribadiscono che i valori (almeno alcuni) esistono e non possono essere offesi senza che ciò provochi conseguenze gravi”. In altre parole usano un modello “tragico” (Shakespeare lo faceva nel Riccardo III o nel Macbeth): è un modulo di racconto che è pedagogico attraverso la negazione. Mentre queste serie alimentano le ombre morali dei protagonisti, lasciano però comprendere allo spettatore – almeno quelle migliori, come Mad Men, per esempio – la direzione di una possibile redenzione del personaggio e, a volte, la fanno addirittura sperare. C’è, lo dico di nuovo con Braga, la “tensione a un’innocenza perduta. Il piacere dello spettatore è dunque quello di una riflessione morale condotta su terreni estremi”. 

 

E in Italia? 

Gli sceneggiatori italiani tendono a guardare molto – per certi aspetti forse troppo – questi modelli americani, senza però sempre riuscire a mantenere la stessa complessità e la stessa arditezza tematica. Quelli che imitano male le serie americane, si limitano quindi a rappresentare dei “cattivi” che sono molto piatti, che come tali non hanno appeal sul pubblico mainstream, ma a volte neanche su quello che va sulla pay. Fra l’altro non dimentichiamo che queste serie, in Usa, hanno pubblici che sono di nicchia, perché sono programmate su canali a pagamento come HBO o AMC. Vengono diffuse in tutto il mondo, ma in ogni Paese i numeri assoluti sono bassi. Anche in Italia, questi modelli narrativi – alla Gomorra o alla 1992, per capirsi – funzionano solo con i numeri delle pay tv di Sky, che si contano in centinaia di migliaia di spettatori e non nei milioni della fiction generalista di Rai o Mediaset. 

 

Quindi il problema non è del committente? 

Conoscendo abbastanza bene l’ambiente professionale degli sceneggiatori avverto serpeggiare ormai da qualche anno un’ansia quasi adolescenziale di “liberazione” da quelli che sarebbero dei paletti puramente formali indicati dai network (soprattutto dalla Rai); dei divieti e dei tabù ormai privi di senso che non consentirebbero l’audacia e l’innovatività delle serie cable americane. Ma, a parte il fatto che le serie che vanno sui canali cable hanno pubblici che sono costituiti da nicchie super-specializzate (la prima serie di Mad Men ebbe meno di un milione di spettatori su una popolazione superiore a 300 milioni, cioè lo 0,3% di rating: un punteggio che in Italia significherebbe 180.000 spettatori…; Breaking Bad, tranne l’ultima stagione, non superava mai l’1%), il rischio è soprattutto di non cogliere come anche quando il protagonista è dark le serie americane innervano il racconto con delle tensioni morali fortissime, che sono quelle che interessano lo spettatore. 

 

Ma i “buoni” funzionano ancora? 

Nonostante quello che dice qualcuno, io sono straconvinto di sì. Basterebbe citare, per il cinema, oltre a tutti i supereroi (che sono più complessi ma rimangono buoni), il personaggio di Anne Hathaway nel Diavolo veste Prada o quello interpretato da Tom Hanks nel Ponte delle spie. Ma nella televisione italiana, da quasi quindici anni i personaggi che fanno i milioni di ascolto si chiamano Montalbano e Don Matteo… Più chiaro di così…