A sessanta anni di distanza da quelli che venivano definiti dalla stampa italiana come i “fatti d’Ungheria”, si può affermare che nel nostro Paese il ricordo relativo all’insurrezione magiara contro l’oppressione e l’ingerenza sovietica sia tuttora vivo. Ne è testimonianza un convegno tenutosi di recente presso l’Università Cattolica di Milano al quale hanno partecipato diversi studiosi ungheresi e non, convegno che ha avuto il merito di mettere in luce alcuni aspetti ancor oggi problematici nell’interpretazione dei fatti, come ad esempio le intenzioni ed il ruolo giocato da Imre Nagy prima e durante la rivoluzione (fu veramente animato da uno spirito riformatore in senso democratico oppure colse il momento propizio per imporsi, rimanendo successivamente travolto dal sistema stesso?) suggerendo alcuni spunti di riflessione che potranno essere magari discussi ed approfonditi in occasione dei numerosi eventi di commemorazione previsti il prossimo autunno per i sessant’anni della rivoluzione.
L’originalità e la vivacità del suddetto convegno sono passati anche attraverso la presenza di ospiti d’eccezione, vale a dire non necessariamente appartenenti al mondo accademico, in particolare ricordiamo colei che in Ungheria è considerata come una sorta di eroina nazionale, Mária Wittner, combattente che, non ancora ventenne all’epoca dei fatti, si guadagnò una condanna a morte poi tramutata in ergastolo, e che oggi fa del ricordo e della sensibilizzazione nei confronti del ’56 il suo credo esistenziale e politico, conducendo le proprie battaglie anche in seno al parlamento ungherese.
Eppure, dato il carattere fieramente combattivo che la contraddistingue, ci ha personalmente colpito l’interesse dimostrato dalla signora Wittner nei confronti di una testimonianza decisamente pacata e singolare relativa all’insurrezione, la quale permette di guardare a quella realtà da una prospettiva priva di pregiudizi di natura storica o politica. Ci riferiamo ad un diario tenuto da un ragazzo dodicenne all’epoca dei fatti e che venne tenuto lungamente nascosto: l’opera in questione è stata infatti pubblicata solamente nel 2006 proprio in occasione del cinquantesimo anniversario della rivoluzione e raccoglie le attente testimonianze del protagonista, un ragazzino curioso e vigile nei confronti del mondo circostante, specialmente di quello dei grandi.
Grazie ad una lingua semplice ed essenziale, Gyula (nome di battesimo di Csics, autore del diario in questione) racconta con precisione i fatti che avvennero tra il 23 ottobre 1956 (giorno dei primi scontri) al 15 marzo 1957 (giorno della festa nazionale ungherese che segna non solo la fine del diario, ma anche — simbolicamente — la fine di ogni speranza di cambiamento in seguito al ripristino dell’ordine precostituito). Ciò che colpisce in quello che è diventato in breve tempo un successo editoriale in Ungheria e che attende di essere conosciuto all’estero (è attesa proprio per il prossimo autunno una traduzione in italiano), è l’approccio alla realtà circostante che contraddistingue il modo di scrivere del protagonista, il quale da un lato narra di fatti relativi alla propria vita di dodicenne fatta di scuola, compagni di giochi, letture, svago, lezioni di violino e visite ai parenti, mentre dall’altro presenta anche intensi e sorprendenti (se si pensa all’età di chi scrive) riferimenti agli avvenimenti che si susseguivano in città, alle relazioni tra vicini di casa, ai discorsi degli adulti, dei politici che intervenivano alla radio, agli articoli di giornale che, come alcuni volantini propagandistici di movimenti differenti distribuiti in vari punti della città, venivano talvolta raccolti ed allegati contribuendo ad un lavoro di testimonianza svolto in maniera più o meno consapevole.



Il legame tra questo mondo privato e pubblico risulta evidente anche dai numerosi disegni realizzati dallo stesso autore dodicenne, schizzi che che impreziosiscono il diario e che raffigurano scene di vita quotidiana cui assiste il protagonista, come ad esempio le case semidistrutte dall’intervento dei carri armati nel centralissimo quartiere in cui vive con la sua famiglia, le vetrine dei negozi in frantumi, i tram ribaltati sul viale della circonvallazione, il centro commerciale Corvin in fiamme, gli itinerari delle passeggiate attraverso una Budapest per metà reale e per metà frutto della fantasia dell’autore e di un suo amico d’infanzia.
Ciò che emerge in maniera inequivocabile dalle pagine del diario è il carattere spontaneo e popolare che caratterizzò l’insurrezione, così come la speranza di ottenere maggiori libertà nella vita di tutti i giorni: tali aspetti risultano palesi tanto all’interno della comunità ristretta cui appartiene il protagonista (la sua famiglia ed il vicinato), tanto in quella più estesa della capitale ungherese, come si evince chiaramente da alcuni episodi di scontri cui partecipano studenti e cittadini di ogni rango sociale, ma anche da alcuni volantini allegati al diario con le loro richieste al governo (si pensi ad esempio ai movimenti studenteschi ed operai) e le loro esortazioni a combattere.
Come sottolineato dall’autore nella postfazione al diario curata in occasione della prima edizione, lo stesso ragazzo che lo aveva scritto nella consapevolezza della straordinarietà di quei fatti, decise poi di tenerlo nascosto, forse temendo eventuali conseguenze più per le persone in esso menzionate che non per sé, ma soprattutto per le sorti del diario stesso, considerato come un tesoro da custodire e proteggere, come una parte importante e preziosa della propria esistenza. Colpisce quindi l’autocensura che seppe applicare un ragazzo di dodici anni dimostrando così di aver perfettamente imparato la lezione per poter sopravvivere in un Paese in cui la libertà di opinione non poteva trovare spazio, colpisce altresì il lungo periodo di “rinascita” del diario una volta crollato il sistema totalitario ungherese, quasi fosse stata necessaria una sorta di adattamento alla libertà di espressione oppure di riflessione a proposito di fatti lontani e quasi congelati nel tempo.
Ciò che rimane al lettore è invece una testimonianza nitida, vivace, spontanea e senza pregiudizi di quei fatti che ancor oggi fanno discutere accademici e non solo.

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