Le inchieste del commissario Maigret sembrano nutrirsi di apparente astoricità. L’operato del commissario, gli scenari evocati, le ambientazioni e i personaggi che si susseguono, non temono ruggini, perché una quota di ruggine, di chiaroscuro e di sfumatura è invariabilmente al lavoro nella scrittura di Simenon. Non appena si smette di cercare la storia e la cronaca nei riferimenti diretti, però, le inchieste del commissario tornano ad essere un eccezionale prontuario dei tempi. Il Maigret dei primi passi è lo stesso di quello degli ultimi racconti, mentre la scenografia segue con lungimiranza lo svolgersi del comportamento umano attraverso i costumi collettivi.
E’ con questo spirito che conviene andare a rileggersi Stan l’Assassino, dalla serie di La Locanda degli Annegati, splendida antologia breve meritoriamente pubblicata dai soliti tipi di Adelphi (Milano, 2013), vera e propria pinacoteca del genio simenoniano.
I racconti vengono scritti negli anni Trenta e Quaranta e qualche spia nella narrazione — le automobili di cui si parla, la descrizione di alcuni luoghi e dei loro arredi — effettivamente ce lo conferma. Se fossero scritti al passato (gli anni Venti) o al futuro (gli anni Sessanta), non farebbe molta differenza per godere della felicità delle trame e delle scelte stilistiche. Viviamo, questo con certezza, un’altra Europa, un’altra Francia, un’altra epoca. In Stan l’Assassino l’allarme sociale ha le forme di una efferata banda di rapinatori polacchi: uccidono dove rubano, arrivano a sgozzare, depredano in colpi molto efficaci. In loro, però, non c’è l’anima della criminalità autoctona, che cerca radicamento, base costante, organizzazione previdente. Nossignori: la banda dei rapinatori polacchi ruba, incassa e spende. Appena il malloppo finisce, la ruota del crimine torna a girare: fattorie da assaltare, anziani da cogliere di sorpresa, razzie da fare ovunque se ne presenti l’occasione. Metodi spicci, non raffinati, eppure implacabili, eppure riuscitissimi.
E’ curioso che Simenon, narratore tendenzialmente poco giudicante, dedichi qualche pagina del bel racconto a tipizzare il comportamento della comunità polacca. Ben prima che arrivasse la banda, c’erano già polacchi: al lavoro nelle fattorie, magari per paghe inferiori ai lavoranti francesi, o sospinti dall’estremo bisogno ad affrontare con dignitosa miseria la crescente e onnivora periferia urbana.
I criminali non sono ben visti dai polacchi onesti: infangano il nome di un popolo alle prese con varie vicissitudini umane e politiche, cercano rifugio e ospitalità, impongono la legge dell’omertà. E sanno farlo perché le comunità polacche sono divenute piccoli ghetti, dove si sta tra simili, dove l’autorità francese può far paura, ma certo non genera fiducia incondizionata. Il rifugio e l’ospitalità offerti agli extralegali sono, però, ambivalenti. In primo luogo, c’è il senso di disagio verso connazionali che gettano discredito su centinaia di bovari e piccoli coloni e che, persino nei quartieri malfamati di città dove si rifugiano i derelitti, ingenerano l’equazione tra diversità etnico-culturale e dedizione alla delinquenza. Qualunque comunità marginalizzata e minoritaria non può non dolersi di quei fenomeni di panico sociale che amplificano e rendono ineluttabile quella condizione disagiata e subordinata.  



Eppure, nonostante l’omertà possa essere estorta con le coltellate e con le minacce, scatta silente una sorta di empatia tra compatrioti e, ancor più, tra persone destinate, a titolo diverso, a sperimentare la stessa sofferta minorità. Ecco perché onesti e disonesti finiscono, spesso inevitabilmente, ad abitare nelle stesse palazzine, a bere negli stessi locali, a comprare carne dallo stesso macellaio e farina dallo stesso mugnaio.
Queste note di Simenon, appena accennate nella stessa stesura del racconto, hanno un forte potenziale di manifesta attualità nello scenario presente. Più una comunità minoritaria si ghettizza (tanto in senso riflessivo, quanto in senso passivo: o lo sceglie o le è imposto), più al suo interno la presa della normatività pubblica statuale scema a favore di chi si fa rispettare con violenza, minaccia o allusività. Al tempo stesso, però, svuotare completamente l’interfaccia pubblicistica e amministrativa di valori di convivialità e di accoglienza finisce per implementare questo circolo vizioso. Il soggetto posto in una condizione di subordinazione in un gruppo già minoritario e subordinato finisce per provare una contorta empatia verso i potentati illegali e i loro scherani, mentre si allenta ogni speranza di essere pienamente riconosciuto e valorizzato all’interno della cornice pubblica legale.
Alla fine del racconto, e forse tardivamente rispetto allo stesso lettore che ha saputo cogliere i segni dell’indagine, Maigret si accorge che Stan l’Assassino, il famelico caporione e re dei ladri, altri non è che la donna del gruppo. Sui possibili risvolti antropologici di questa scoperta, è inutile far congetture: il male può trovare radicamento ovunque e in chiunque meno ci si aspetti. Ed è in qualche modo sempre in ossequio ad una certa empatia che la femminilità corrotta dal male e dalla prevaricazione, nel male e nella prevaricazione, ci sembra ancor più vittima e ancor più carnefice. Perché in un contesto essenzialmente maschile finisce per utilizzare l’aggressività e la vendicatività come strumenti del linguaggio. E’ proprio la mancanza di dialogo che crea le “bande dei polacchi” di ogni epoca e di ogni Francia.

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