Una ragazza alle prese con gli esami di stato intitola la sua tesina Crying for Shakespeare: perché leggendo Romeo e Giulietta le è successo di piangere per “un amore così vero, sconfinato e potente” che “se esistesse il mondo sarebbe un posto più bello”. Lei sì che ha capito Shakespeare. Come scrive Arthur Schopenhauer, «la propria esperienza è condizione indispensabile per comprendere sia la poesia, sia la storia: essa, infatti, è come il dizionario della lingua che parlano ambedue». Già, ma chi ci insegnerà la lingua dell’esperienza? Chi non si fermerà alla lingua delle parole ma scriverà un dizionario nella lingua dell’esperienza?
Scrivere, infatti, vuol dire — Cesare Pavese docet — «trasformare dei fatti in parole». Leggere, di conseguenza, non potrà che significare il percorso inverso: risalire dalle parole ai fatti. Senza arrivare all’esperienza non cogliamo la lingua di un testo. E nessuno legge libri scritti in una lingua che non capisce, se non ha gli strumenti per tradurla. Bene, il rischio dei nostri giorni è non leggere libri perché non se ne conosce la lingua: non appena l’inglese o l’italiano poetico, ma innanzitutto la lingua dell’esperienza. Facciamo tante cose, è vero, ma «l’uomo moderno torna a casa alla sera sfinito da una farragine di eventi — divertenti o noiosi, insoliti o comuni, atroci o piacevoli — nessuno dei quali è però diventato esperienza» (Giorgio Agamben).
Il mondo nuovo di Aldous Huxley profetizza nel 1932 un’epoca in cui tutti sono immersi in una tale contentezza ottusa da non sentire nemmeno il bisogno di leggere. Al culmine del romanzo il Selvaggio, l’unico rimasto estraneo a questa tranquillità universale, si trova faccia a faccia con il Governatore, che controlla il mondo nuovo che si diverte e non legge più. Quest’ultimo lo rassicura che non è stato censurato niente: i libri non sono stati distrutti e, da qualche parte, ci sarebbero ancora. Allora «perché non fate leggere loro “Otello”, piuttosto?» gli domanda il Selvaggio. La risposta del Governatore è semplice: «non lo capirebbero». «Perché il nostro mondo non è il mondo di “Otello”. Non si possono fare delle macchine senza acciaio, e non si possono fare delle tragedie senza instabilità sociale. Adesso il mondo è stabile. La gente è felice; ottiene ciò che vuole, e non vuole mai ciò che non può ottenere. Sta bene; è al sicuro; non è mai malata; non ha paura della morte; è serenamente ignorante della passione e della vecchiaia; non è ingombrata né da padri né da madri; non ha spose, figli o amanti che procurino loro emozioni violente».
Perché mai, se non fa l’esperienza dell’infelicità, una persona dovrebbe capire un libro che parla di infelicità? Solo chi patisce capisce. «La rima fiore / amore», che tanto incantò Umberto Saba, è «la più antica difficile del mondo». Non ci vuole molto a comprendere l’italiano in cui è scritta, ma solo «il dolore / riscopre amica» la «verità che giace al fondo» di quelle parole. Chi si sente a posto, chi cerca il relax, chi vive amori tranquilli, chi non ha paura, che può capire? «Vi aspettate che capiscano “Otello”! Povero ragazzo!». Oggi è stata inventata la felicità, che è alla portata di tutti: un po’ di mare, un bel viaggetto, qualche serata in compagnia. «Bisogna scegliere tra la felicità e ciò che una volta si chiamava la grande arte. Abbiamo sacrificato la grande arte». Pazienza per Shakespeare: adesso ci sono gli europei.
Come potremo capire questi libri antichi che una pagina sì una no parlano di Dio se ormai «il sentimento religioso è superfluo» e noi «continuiamo a divertirci»? «”Nonostante tutto questo” insistette il Selvaggio “è naturale credere in Dio quando si è soli, completamente soli di notte, e si pensa alla morte”. “Ma la gente non è mai sola al giorno d’oggi”» è la pronta risposta degli uomini nuovi: c’è sempre almeno un rigore sbagliato su cui fare dell’ironia, o da condividere o ritwittare chi fa dell’ironia su un rigore sbagliato. E se fa caldo c’è l’aria condizionata, se la noia ci mangia organizzeremo qualcosa, se un amore finisce ce ne faremo un altro, e se capita un attentato fra poco si parlerà d’altro. Per fortuna la vita presenta delle comodità che in passato si sognavano: chi ci darà l’energia per quello sforzo di leggere che proprio non ha confronti con un televisore, un divano e una birra fresca? Il Selvaggio finisce per gridare: «”Ma io non ne voglio di comodità. Io voglio Dio, voglio la poesia, voglio il pericolo reale, voglio la libertà, voglio la bontà. Voglio il peccato”. “Insomma” disse Mustafà Mond “voi reclamate il diritto di essere infelice”. “Ebbene, sì” disse il Selvaggio in tono di sfida “io reclamo il diritto di essere infelice”».
Che vantaggio ne abbiamo a mandare all’aria il sogno di una vita sistemata? Il vantaggio di chi vive l’esperienza dell’infelicità e della scomodità: sentirsi scoppiare dentro al cuore la domanda della felicità, la voglia di cose immense. E poi — non lo sottovaluterei — anche la capacità di immedesimarsi con chi muore in Bangladesh, o con chi sbaglia un rigore.