Tra i numerosi scrittori di lingua inglese studiati da Jorge Luis Borges (1899-1986), Gilbert Keith Chesterton (1874-1936) occupa una posizione di tale rilievo da risultare forse culturalmente imprevista e sorprendente per alcuni lettori distratti o ideologicamente prevenuti: in realtà, nel 1968 il creatore della fantasmatica Biblioteca di Babele (1941) confessò senza mezzi termini alla scrittrice latinoamericana Rita Guibert il suo grande “affetto” per Chesterton, pur rammaricandosi dell’assenza in quest’ultimo di “un’ispirazione classica” e del fatto che il suo “gusto” sia destinato a svanire con la conseguenza che, “nell’arco di uno o due secoli, Chesterton figurerà soltanto nelle storie della letteratura”.
Non è difficile prevedere che fossero i romanzi e le centinaia di prose chestertoniane abitualmente catalogate come “short stories” ad attirare l’attenzione di Borges. In un breve intervento intitolato Sopra Chesterton e raccolto nelle sue Altre Inquisizioni (1960), egli ne delineò un profilo — per così dire — vagamente antropologico e narratologico che nasceva dalla sua convinzione di percepire in quella produzione narrativa “un emblema della storia di Chesterton, un simbolo o uno specchio di Chesterton”, anzi — scriveva Borges — una sua “forma essenziale”, ben più significativa di un semplice “artificio retorico”. Secondo lo scrittore argentino, infatti, ogni testo narrativo dell’inventore di Father Brown, “presenta un mistero, propone spiegazioni di tipo demoniaco o magico e le sostituisce, alla fine, con altre che appartengono a questo mondo”. Tale dinamica — anche se Borges non impiega quest’ultimo termine — è dovuta al fatto che “qualcosa nella creta del suo io inclinava all’incubo, qualcosa di segreto, e cieco e centrale” e dimostrerebbe che “la ‘ragione’ [tra virgolette in Borges, nda] alla quale Chesterton sottomise le sue immaginazioni non era precisamente la ragione ma la fede cattolica ossia un insieme d’immaginazioni ebraiche sottomesse a Platone e ad Aristotele”.
Così, verbatim, Borges, il quale, tra le opere narrative dell’amato scrittore inglese al quale rivolge le sue attenzioni critiche, menziona anche The poet and the lunatics. Ovvero, per citarne il titolo completo, The Poet and The Lunatics: Episodes in the Life of Gabriel Gale, pubblicata nel 1929 dalla casa editrice britannica Cassell, che, come ricorda Simon Nowell-Smith, in quegli anni aveva in catalogo i migliori story-writers del tempo (oltre a Chesterton, Somerset Maugham, Phillips Oppenheim, Rudyard Kipling e molti altri) e poteva vantare il grande successo editoriale del mensile The Story Teller (uscito dal 1907 al 1937). L’uscita di The Poet and The Lunatics fu salutata dagli esperti con la consueta e imbarazzata miscela di apprezzamento, perplessità e denigrazione che spesso accoglieva la narrativa chestertoniana: ad esempio, nel numero del 5 ottobre 1929, l’anonimo recensore del settimanale cattolico londinese The Tablet, v’individuava alcune “gemme finemente tagliate e di squisita fattura”, collocate però in un contesto inadeguato, in cui la “fantasia chestertoniana” sconfina in un'”insensata bruttezza”. Conclusione di The Tablet? Caro Chesterton, “metta da parte questa roba infantile”!
Proprio The Poet and The Lunatics: Episodes in the Life of Gabriel Gale è appena tornato nelle librerie italiane per i tipi di una piccola e coraggiosa casa editrice, Fuorilinea di Monterotondo, con il titolo di Il poeta e i pazzi. Episodi della vita di Gabriel Gale (2016). Questa nuova edizione rimedia a una terna di problematiche dell’edizione Bompiani, l’unica oggi disponibile sul mercato, che aveva a sua volta raccolto l’eredità editoriale dell’Istituto di Propaganda Libraria (IPL), avviata verso la fine degli anni venti del secolo scorso da Pio Alessandrini della Compagnia di San Paolo. Le elenco grazie alla cortese collaborazione di Marcello Proietto della Biblioteca Civica di Biella: in primo luogo, Fuorilinea ristabilisce gli otto capitoli del testo originale che erano stati ridotti a sei, eliminando inopinatamente il quarto e il quinto testo; in secondo luogo, riconduce il titolo alla visione ampia dello scrittore, superando il riduttivo sottotitolo Sei casi del poeta detective Gabriel Gale; in terzo luogo, aggiorna la traduzione di Frida Ballini con quella diligente e apprezzabile di Annalisa Teggi. Se vi pare poco! Per questi evidenti pregi l’anglista che scrive riesce a perdonare, pur con qualche sforzo filologico ed etimologico, a Fuorilinea la traduzione di Lunatics con Pazzi, già adottata da IPL e Bompiani…
Cos’è, dunque, The Poet and The Lunatics: Episodes in the Life of Gabriel Gale e perché vale la pena di leggerlo? Novel per Ian Boyd e Thomas C. Peters; romance per Frank A. Lea; una “raccolta distories” per Alzina S. Dale, che diventa “una sequenza sconclusionata di fantasiose detective emystery stories” per The Tablet. Nella contraddittorietà di queste definizioni si riflette la costante difficoltà della critica di adattare le proprie categorie all’opera narrativa di Chesterton.
Non v’è dubbio che The Poet and The Lunatics manifesti le ambizioni culturali e strutturali del romanzo. Il protagonista Gabriel Gale, il cui cognome vale “burrasca”, attraversa e supera una serie di otto misteriose violazioni delle norme umane e sociali perpetrate da lunatics (cioè da persone soggette all’imprevedibile influenza di un’altrove quale la luna: di qui la necessità di tradurre questo sostantivo con lunatici!). All’interpretazione e risoluzione di tali violazioni Gale applica la sua intelligenza, burrascosa e sovvertitrice per i conformisti, conferendo unità a un mosaico di luoghi e tempi. Eppure, al tempo stesso, gli episodi di The Poet and The Lunatics hanno anche la dignità e l’autonomia delle varie tipologie di stories di cui sopra si è offerta minima sintesi: dignità e autonomia che potrebbe far ritenere che si possa leggerle a prescindere dalla macrocornice che le contiene. Tuttavia, potrebbe essere lo stesso Chesterton a scoraggiare questa infrazione, scorgendovi la stessa matrice che egli rilevò nella “nostra moderna attrazione per leshort stories“, che, come Chesterton scrisse nel saggio su Charles Dickens (1906), “è il segno di un reale senso di fugacità e di fragilità [che] significa che l’esistenza è solo un’impressione e, forse, solo un’illusione”.
Gabriel Gale non è solo un poeta detective, come vorrebbero le edizioni IPL e Bompiani, emulo imperfetto e infelice di molti prestigiosi analoghi suoi contemporanei: è un manalive (uomo vivo), che non rinuncia a nulla di cui la sua ragione possa avvalersi per dare significato alla realtà e alla sua vita, per quanto improbabile possa sembrare a prima vista. Quelli che The Poet and The Lunaticspropone non sono solo episodi nel senso frammentario, isolato e autoreferenziale che spesso viene attribuito a questo sostantivo: come suggerisce l’etimologia del termine “episodio”, sono invece componenti emblematici e complementari di una più ampia rappresentazione scenica, del più ampio paradigma dell’esperienza umana. Per questo, per comprenderli davvero, bisognerebbe forse poterli leggere tutti nello stesso momento, cogliendo la polifonia che vi risuona, con quel contrappunto sottile e geniale tra ciò che vi è ritratto di personale e di comunitario, di particolare e di universale. È questo l’orizzonte antropologico indicato da Chesterton, il dynamic classicist per eccellenza, colui che incarnò alla perfezione l’idea che sta alla radice del personaggio del protagonista di The Poet and The Lunatics e che è espressa dallo stesso Gale nel primo episodio: “il genio deve essere centrico: deve fissare lo sguardo al centro del cosmo e non vagabondare nelle galassie più sperdute. La gente pensa che sia un complimento dire di una persona che è fuori dagli schemi e poi chiacchiera dell’eccentricità del genio. E cosa penserebbe la gente, se io dicessi che pregherei Dio di non concedermi altro che la centricità del genio?”.