Caro direttore,
premesso che Brexit o non Brexit, un europeista come il sottoscritto sarà sempre europeista, non possiamo non registrare una forte battuta d’arresto del progetto d’integrazione europea e la profonda crisi nella quale ormai esso sembra essere caduto. Di fronte ad un certo entusiasmo manifestato dalla comunità euroscettica mondiale, esaltata e confermata nel proprio scetticismo dalla decisione dei sudditi di Sua Maestà di abbandonare l’Ue, ho provato un magone allo stomaco; e la sintetica riflessione che segue è il frutto delle discussioni avute di recente con gli amici del Centro Studi Tocqueville-Acton, con gli studenti e i docenti del “Free Society Seminar” di Bratislava e con i colleghi Dario Antiseri, Rocco Buttiglione, Dario Velo e Michael Wohlgemuth.
Invero, non si può dimenticare come, nelle prove della storia, il Regno Unito si sia dimostrato la patria del liberalismo e la culla dell’istituzione parlamentare, il bastione della libertà europea, mentre il Continente si attardava in autoritarismi, totalitarismi e guerre nazionaliste e fratricide. È per questo che oggi l’Ue è indubbiamente più povera, almeno in termini di cultura politica liberale, e meno attrezzata per affrontare con coraggio le sfide della competizione globale.
D’altro canto occorre anche chiedersi quanto questa Gran Bretagna conservi di quella cultura e quanto invece non l’abbia rinnegata, assumendo una posa politica di negazione pragmaticamente ottusa delle quattro libertà fondamentali dell’Europa unita: movimento di merci, servizi, capitali e persone. Negando specie quest’ultima, si cade nel più banale protezionismo, arroccandosi intorno ad un’anacronistica nozione sovranità nazionale.
Eppure non mancavano anticorpi a questa deriva: tra i tanti, voglio menzionare la lezione dell’economista federalista e liberale Lionel Robbins e del suo collega austriaco Friedrich August von Hayek. Entrambi hanno sognato un contributo all’edificazione dell’Europa completamente diverso dagli esiti odierni. Nei loro saggi, rispettivamente L’anarchia internazionale e l’economia liberale e L’anarchia internazionale e l’economia socialista del 1937 e Le condizioni economiche del federalismo tra gli Stati (1939), ora in uscita per i tipi Rubbettino, Robbins e Hayek mostrano l’impossibilità, per un sistema liberale, di sopravvivere all’interno di un sistema internazionale fondato sulla rigida divisione in Stati nazionali, evidenziando come la pianificazione della produzione a livello internazionale, e la progressiva perdita della libertà economica, sviluppino una corrente mirante a sostituire le forme democratiche di un’organizzazione con un sistema dittatoriale; di qui l’esigenza, avvertita dai fautori del “liberalismo ordinamentale” e dell’economia sociale di mercato, di una costituzione economica che promuova la concorrenza su scala globale.
Per entrambi, l’obiettivo è l’edificazione di un sistema mondiale capace di adattarsi ai mutamenti e tale da fornire incentivi all’adattamento, attraverso un complesso di istituzioni idonee ad affrontare le difficoltà dell’organizzazione su scala mondiale. Questa insistenza sulle istituzioni è ciò che distingue il loro liberalismo da quella caricatura che lo intende come mero sistema anarchico, privo di regole, nel quale regna il disordine che avvantaggia gli individui senza alcuno scrupolo.



Ma non sono soli: con loro, anche Wilhelm Röpke, Luigi Einaudi e Luigi Sturzo, si schierarono apertamente a favore di un’organizzazione sopranazionale sul modello dell’esperimento degli Stati Uniti d’America, facendo propria in tutti i suoi principi la teoria dello Stato federale di Hamilton. Dopo aver mostrato i disastri causati da un sistema internazionale basato sulla divisione anarchica in Stati sovrani (Staatenbund) e considerata l’impossibilità di edificare un grande Stato unitario (Einheitsstaat) a competenza universale, il quale porterebbe ad un livello insostenibile tutti gli aspetti negativi ed illiberali dei piccoli Stati unitari, questi autori, padri morali dell’Europa unita, affermano la necessità non tanto di una rivoluzione economica, quanto di una rivoluzione politica, in cui ciascuno Stato sovrano nazionale sottometta una serie di diritti ad un sistema di autorità internazionali, ma dove nello stesso tempo anche i diritti delle autorità internazionali vengano limitati a favore delle entità regionali. Come scrive Robbins, “non si deve giungere né a un’alleanza né a una completa unificazione, ma ad una federazione (Bundesstaat)”.
A questo punto, che cos’è accaduto perché da tanta cultura liberale, federalista ed europeista sia potuta maturare una maggioranza di britannici che al sogno federalista ha preferito la piccola patria? Forse in questi anni abbiamo parlato troppo di burocrazia europea e troppo poco di economia reale europea, e ancor di meno di politica europea, di cultura europea. I Padri fondatori dell’Ue, e con loro Giovanni Paolo II ed Helmut Kohl, avevano una visione dell’Europa come famiglia di nazioni che unificava nazioni affratellate da una comune radice cristiana. Era un’Europa “nazione di nazioni”, in cui la propria originaria identità nazionale si ampliava in una più comprensiva identità europea. Per questo era essenziale che questa Europa avesse delle radici: ebraico-cristiane e greco-latine. Avere delle radici significa anche avere dei confini, aprirsi gradualmente a chi ci è più vicino. I popoli possono essere generosi verso i profughi, ma vogliono possedere le chiavi di casa propria e costruire la fratellanza universale a partire dall’unità con quanti sono culturalmente più vicini. L’apertura illimitata ed indiscriminata genera alla fine un timore ed un rifiuto altrettanto illimitato ed indiscriminato.
Quindi, all’indomani della Brexit, “Keep calm and Reform Europe“, ripartendo dai principi di solidarietà e di sussidiarietà, principi liberali e cristiani che hanno ispirato i Fondatori e che la cultura politica britannica ha contribuito a sviluppare e a lasciarci in eredità, ma dei quali sembra essersi dimenticata.

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