Le lamentazioni sembrano essere la nuova forma della coscienza critica, della coscienza civile, della cultura. Da qualunque parte si volga lo sguardo il panorama che ci viene suggerito è quello di una deriva inarrestabile: non c’è più la Politica, quella con la P maiuscola; non c’è più la Giustizia, quella con la G maiuscola; non c’è più la Cultura, quella con la C maiuscola. E l’elenco è sterminato, infinito. Quello che più infastidisce e insieme incuriosisce è che questa diagnosi è sempre più spesso stilata da chi vive e opera all’interno di quello stesso settore che viene messo in discussione, criticato, talvolta messo alla berlina. Così è l’uomo di Cultura a sancire la fine della Cultura con la C maiuscola; l’uomo politico a sentenziare la morte della Politica con la P maiuscola e via di seguito, all’infinito. Non c’è più nemmeno il Calcio con la C maiuscola: tutto si risolve con qualche telefonata del procuratore, qualche favore, qualche svista al momento giusto. Niente più pressing, niente più dribbling, se non fuori dal campo, sulle persone giuste, su quelli che contano.
Il nuovo sport nazionale, quello delle lamentazioni, vive però anche dentro l’humus favorevole e necessario dell’altro caposaldo del pensiero e della vita contemporanei: quello del sospetto. Alla sparizione delle maiuscole contribuisce il proliferare delle virgolette: tutto sta lì sospeso e in via di accertamento, di verifiche che non arrivano mai e, dunque, intanto, è almeno necessario tutelarsi con le virgolette: una cosa del tipo “io non c’entro, non ho responsabilità, riferisco, poi si vedrà”.
Sembra però che qualcosa si sottragga all’andamento minuscolo e virgolettato del mondo contemporaneo: Sogno e Desiderio continuano a restare in vetta alla hit parade delle poche maiuscole rimaste, e la notte di San Lorenzo è la casa dove essi abitano e resistono. Per me sarebbe più corretto dire che è il recinto entro il quale sono stati relegati: la Cultura con la C maiuscola ha provveduto a depotenziare anche il significato di questi termini, facendo la stessa cosa che ha fatto con tutto il resto. Non è forse vero che la crisi della politica, della giustizia, dell’educazione, del lavoro e di tutto quello su cui oggi piangiamo, sono il frutto di una lenta, studiata, misurata distruzione di quell’unità dell’uomo perseguita con tenacia dalla cultura? Proprio dalla cultura con la C maiuscola che gli uomini di cultura rimpiangono e che è invece all’origine della deriva dell’uomo, della sua unità, della sua verità.
Ma non esistono più le maiuscole, ci diranno quegli stessi uomini, nemmeno quelle di parole come Uomo, Unità, Verità. E allora perché sogno e desiderio sì? Perché oggi in tutte le trasmissioni radio e tv c’è un angolo dedicato alle stelle che cadono, ai nostri sogni a cui occorre tenersi aggrappati, ai desideri che non possiamo abbandonare mai? Di quale sogno e desiderio parlano?



C’è da invidiare Pascoli che nella sua poesia X agosto — lui che spesso si trova sopraffatto e stupito di fronte alla vastità del mondo — dice di sapere perché cadono le stelle: sono il pianto del cielo che si unisce al suo, raccontano l’unità, la vicinanza di Dio all’uomo nel dolore. In Pascoli tutto è legato, tutto si tiene e da lui dovremmo imparare. L’agiografia delle meteore scintillanti alle quali rivolgiamo gli occhi per chiedere che qualcosa si realizzi non è mica male in sé. Anzi. Ma sarebbe bello che, proprio in queste notti, tornassimo a pensare il vero valore di parole come Sogno e Desiderio e, grazie a questo, tornassimo a scrivere con la maiuscola le altre parole e riscrivessimo il dizionario e la grammatica. Dell’uomo e delle cose. Che poi la cultura non è nient’altro che questo: mica parole stanche e vuote che si rincorrono, ma respiro, carne, coscienza e sguardo sui giorni. E sulle stelle. Tutto realisticamente tenuto insieme.
Ricominciamo proprio da qui, da questi nasi all’insù in queste notti, da questo sguardo. Magari guardando a chi, come il poeta, questo sguardo già lo fissa con tenerezza e ferocia, con verità e passione, accogliendo fino in fondo l’istante che viene. Perché non ci si può inventare uomini, bisogna imparare da qualcuno, bisogna essere umili, aperti, carichi di grazie: niente pretese, niente sospetti, niente lamenti. E siamo realisti, chiediamo l’impossibile, come voleva Camus. Con le maiuscole al posto giusto e senza virgolette.

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