Scrivere di storia non è mai un’operazione semplice. Lo è ancor meno quando si tratta di recensire l’opera di un maestro; quando cioè al rigore scientifico dello storico può spesso affiancarsi la simpatia umana della persona. Non è, tuttavia, il caso di questo testo di Francesco Piva, ricchissimo di fonti e riferimenti bibliografici e proprio per questo immune da suggestioni retoriche. Uccidere senza odio. Pedagogia di guerra nella storia della Gioventù cattolica italiana (1868-1943) è un lavoro valido di per sé, un piacere intellettuale da leggere non soltanto per gli esperti del settore ma anche per il lettore comune.
L’opera di Piva ha analizzato se e come, nel periodo 1868-1943, sia stata elaborata una strategia educativa che, in sintonia con le pubbliche istituzioni, abbia contribuito a trasformare il giovane cattolico da “civile” in “soldato”, una persona cioè disponibile ad uccidere e ad essere ucciso sui vari fronti su cui fu inviato a combattere contro altri giovani. Un passaggio che, per il cristiano, trascina da secoli il dilemma tra l’amore al prossimo e la violenza contro il nemico.
In un’organizzazione di peso come la Gioventù Cattolica, che già all’inizio del Novecento si avviò verso dimensioni di massa, fu costante l’esortazione degli iscritti a rispettare la leva obbligatoria e a partecipare alle guerre decise dall’autorità costituita. Ma al giovane cattolico non fu prospettata solo l’obbedienza all’autorità e al comando militare. Fu soprattutto offerto un modello di eccellenza nel combattimento. La ricerca ha messo in luce come venne via via elaborata una strategia pedagogica per guidare i giovani non solo ad accettare il sacrificio con disciplina e abbandono in Dio, bensì a non avere remore nell’infliggere violenza e morte. Non più soldati passivi, cioè obbedienti e non impauriti dalla morte, ma protagonisti attivi, esempio ai compagni in armi per audacia e, al tempo stesso, lucidità operativa, controllo delle emozioni e dell’istinto di fuga nelle contingenze più rischiose. Esaltando e divulgando queste virtù belliche, l’associazione si vantò di offrire alla patria il soldato migliore, anzi l’ufficiale più adatto a guidare le micidiali guerre di massa, proprio in quanto pronto, anche sul piano personale, a reggere la fatica dell’uccidere.
Uno degli aspetti principali del lavoro di Piva, in questo senso, è stato mettere in luce come la preparazione dei giovani cattolici ad accettare e impegnarsi attivamente in guerra non fu in prima istanza influenzata dalle ideologie coeve pur presenti nell’associazione — nazionalismo, interventismo, fascismo — ma derivò principalmente dal nucleo centrale dell’educazione morale del maschio cattolico: l’incitamento alla purezza. 



Quando la Gc nacque, la rinuncia a esperienze sessuali prima del matrimonio era una delle richieste che tradizionalmente guidava il cammino del giovane credente verso l’età adulta. Un duro sacrificio da accettare in vista di un bene superiore, l’amore coniugale. Ma, alla soglia del Novecento, questo precetto fu inglobato in una teoria pedagogica volta a plasmare la personalità del militante: maschio, prestante, forte e coraggioso, pronto allo scontro fisico coi nemici del tempo, socialisti anticlericali. Un’educazione della volontà fondata sull’autocontrollo repressivo degli istinti sessuali quale percorso indispensabile per sviluppare le virtù degli uomini veri. D’altronde, erano quelli gli anni in cui in Europa stava emergendo il culto del giovane atletico; fiorivano allora le palestre e le pratiche sportive dei borghesi, che si andavano diffondendo anche tra i giovani e i ragazzi del popolo. Negli ambienti laici si parlava apertamente del sesso e i pedagogisti discutevano se introdurre l’educazione sessuale come materia di insegnamento nelle scuole.
Questo modello di virilismo cattolico — così lo ha definito Piva — abbassava l’enfasi sulla mortificazione e metteva al centro il piacere di conquistare un carattere forte che avrebbe portato al successo in ogni ambito dell’esperienza esistenziale. Non a caso, quando nella seconda metà degli anni Trenta la sintonia con il regime fascista raggiunse il livello più alto, il modello di virilismo giovanile della Gc aveva da tempo raggiunto autonoma e piena maturazione, ponendosi semmai in concorrenza coi coetanei fascisti.
Non è che non si invocasse la pace e si trascurassero i messaggi pontifici; ma la pace restò sempre un’aspirazione spirituale, storicamente proiettata su un futuro indefinito, con il ripristino della supremazia del cattolicesimo e del papato nel governo delle relazioni internazionali. In mancanza di questo, la speranza della pace fu, per i giovani cattolici, acriticamente subordinata all’obbedienza all’autorità legittima. Così la tesi che attribuiva alla fede non solo un primato morale, ma anche patriottico, venne aggiustata alle ragioni del militarismo e il soldato cattolico venne celebrato come il più devoto alla patria, coraggioso e virile. Nell’insieme, si può fondatamente sostenere che la Gc contribuì a insegnare l’idea di patria a fasce di giovani di estrazione popolare, fra i quali quell’idea era probabilmente debole.
Con la sconfitta nel secondo conflitto mondiale questo modello entrò in crisi; la disfatta militare non poteva non travolgere un modello di virilità considerata in sé vincente, incompatibile quindi con l’umiliazione della disfatta. Senza quel supporto ideologico la morte in guerra perse di senso. Si concluse così l’ambizioso progetto che agli albori del Novecento aveva galvanizzato l’organizzazione giovanile dell’Azione Cattolica nel preparare il giovane soldato ad affrontare cristianamente la guerra. In fondo, la Gc gli aveva promesso un po’ troppo: un carattere maschio, allenato a dominare i propri impulsi naturali, predisposto a primeggiare anche nei conflitti più sanguinosi.



Inoltre, trascurando di mettere in luce cosa insegnano le emozioni, comprese paura e pietà, non gli aveva offerto strumenti adeguati per fronteggiare e reggere esiti laceranti, come la sconfitta. Il modello di virilità appiattito sull’esercizio della forza non fu più in grado di elaborare una narrazione collettiva, umana prima ancora che politica, sull’esito catastrofico della guerra fascista.
In altre parole, il progetto di formare il soldato cattolico, maschio e vincente, crollò principalmente a causa della sconfitta bellica: tuttavia, pesò anche la fragilità insita nel riduzionismo tipico della pedagogia cattolica prevalente in quel periodo, fondata sulla volontà e priva di ogni riguardo per la complessità dei sentimenti e di attenzione al senso delle emozioni.

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