Per ricordare gli ottant’anni dalla morte di Luigi Pirandello, il nostro massimo scrittore del Novecento, la Biblioteca Popolare pubblica una nuova antologia di Novelle per un anno, a cura di Marina Polacco, all’interno di una collana pensata dal Banco Popolare con lo scopo di avvicinare il grande pubblico al patrimonio culturale del nostro Paese. Operazione quanto mai meritoria, se si considera quanto l’arte e la letteratura abbiano contribuito e possano ancora contribuire alla formazione di un’adeguata coscienza nazionale.
Al di là del giudizio che si voglia dare delle novelle pirandelliane (vi è chi, come Gioanola, ha sostenuto la preminenza da assegnare alla narrativa rispetto al teatro: in effetti, tre quarti delle opere teatrali traggono origine dalle novelle), non vi è dubbio che alcuni racconti appaiono veri e propri capolavori e, anche per la loro brevità e concentrazione espressiva, possono costituire un primo approccio, anche per gli studenti, al complesso mondo dell’autore siciliano.
Della fitta e variegata produzione novellistica, la curatrice individua alcuni filoni tematici, selezionando una cinquantina di testi: alcuni di questi molto noti, altri meno. Tra i più interessanti, emerge la novella Va bene. L’affermazione che fa da titolo è ciò che caratterizza il comportamento verbale del protagonista, ennesima incarnazione dell’inetto: umiliato e offeso prima come insegnante, poi come impiegato, infine come marito, reagisce a tutto con un rassegnato “E va bene!”. Come a tanti personaggi pirandelliani, anche a lui viene concessa una tregua: un mese di riposo al mare, per riprendersi da una malattia.
Analogamente a tante altre opere dello scrittore agrigentino, avviene qui l’epifania, o l’intuizione di una possibile epifania: l’uomo braccato da una vita squallida, piegato dalle circostanze, apre gli occhi su una realtà diversa, su una promessa di felicità. Di fronte allo spettacolo della primavera, egli finalmente respira, come di fronte a una grazia inaspettata. Per brevi attimi, dimentica tutto: “la noia cupa, amara; il peso enorme di quella sua insopportabile esistenza. Di contro a tutto il nero che aveva nell’anima, ecco il verde dei prati, l’azzurro del cielo e quella soave freschezza dell’aria, alito vivo della Primavera. E rimase, incantato, a mirare”. Si noti la sapiente decelerazione del ritmo narrativo, come se l’autore invitasse anche noi a rallentare, a guardare, a riflettere. Si delinea davanti a noi la possibilità di consentire alla felicità, suggerita dalla visione dei monti stagliati lievi nel cielo e dal trillo di un’allodola “in alto, librata sulle ali brillanti”. Di nuovo la scelta lessicale insiste sulle liquide e sulle vibranti, tese a riconoscere che “alauda est laeta“, l’allodola è felice, mentre tesse le sue lodi a Dio. Tutto questo non è che l’anticipo della visione suprema: il mare, colto dalla sua anima “ilare e trepidante”, nell’attesa “di quella tremula azzurra immensità che da un momento all’altro gli si sarebbe spalancata davanti agli occhi”.



Dinanzi a quella vastità, il desiderio si fa “acuto, intenso, ardente”, tanto che il professore balza in piedi esclamando “eccolo! eccolo!”, per poi ricadere su se stesso, con le mani sul volto. Affittato un modesto appartamento nella bella cittadina, dalla finestra scorge il mare, il quale “pareva proprio che volesse entrare in casa; non si vedeva altro che il mare”. Lasciata la casa, scende verso la spiaggia, poi, dall’alto di una scogliera, osserva lo spettacolo per lui inconsueto: “rimase per più di un’ora stupefatto, a contemplare”. Dinanzi a lui si disegna il monte, che si leva azzurrino, come “un’isola aerea”; il porto, popolato di navi e poi “la sterminata distesa delle acque”, placida e scintillante al sole. Congedatosi dal “fascino di quello spettacolo”, il protagonista si reca al parco dei Borghese, ugualmente estasiato. “Non ricordava di aver mai passato un giorno più delizioso di quello in vita sua; si sentiva beato”. Si inoltra, ammirato, nel parco, vagando “per quei viali profondi, deserti, ombrosi, come in un sogno. In un sogno parevano veramente assorti quegli alberi maestosi, nel silenzio che il canto degli uccelli non rompeva, ma rendeva anzi più misterioso”. Segue, affascinato, il canto di un usignolo: si trova così, ad un tratto “in una meravigliosa pineta”. Essa gli appare come un tempio; le corone degli alberi “escludevano del tutto lo sguardo dalla vista del cielo. Pareva che la pineta avesse una sua propria aria, cuprea, insaporata di quella frescura d’ombra speciale delle chiese. Il professor Corvara Amidei non seppe andar più oltre. Si tolse, quasi istintivamente, il cappello, e sedette per terra; poi si sdrajò”. Coglie, per un attimo, la possibilità di “intravedere come si potesse davvero sentire la gioja di vivere”. Gli echi letterari che giungono a Pirandello sono quelli della tradizione del locus amoenus, in particolare pare di risentire il richiamo del XXVIII canto del Purgatorio, in cui appare Matelda, ma agisce anche la memoria degli idilli leopardiani.
Dopo averli convocati nella sua “stanza della tortura” — la celebre definizione appartiene a Giovanni Macchia — Pirandello libera i suoi personaggi essenzialmente attraverso due strade: o la via dell’immaginazione, come leggiamo ne Il treno ha fischiato, o per mezzo dello stupore provato dinanzi allo spettacolo naturale, come avviene in Ciàula scopre la luna.
Il protagonista di Va bene è spinto a chiedersi perché Dio lo aveva fatto soffrire così, visto che si era sempre comportato bene. “E chi dunque, chi dunque aveva il governo del mondo, di questa sciaguratissima vita degli uomini?”. La soluzione è umoristica, secondo i dettami del noto saggio del 1908, all’origine di tutta la concezione estetica pirandelliana, ma ricorda anche le caustiche e paradossali conclusioni delle Operette morali di Leopardi: una pigna piomba “a guisa di fulminea risposta” sul capo del professore, facendolo sanguinare. A chi, sgomento, gli chiede cos’è successo, risponde: “La pigna che governa il mondo… già!”.
La tregua si esaurisce, il mondo è riconsegnato al caso e all’insensatezza. Ma quella visione non è stata un sogno: qualcosa è veramente accaduto, come una possibilità offerta alla libertà dell’uomo.

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