Un germoglio di libertà sbocciato “nella testa febbricitante di un tisico allo stremo delle forze” mette in crisi un sistema totalitario costruito sulla sottomissione universale. L’Abistan, di cui narra l’algerino Boualem Sansal nel romanzo 2084. La fine del mondo (Neri Pozza, Vicenza 2016), si propone come l’inizio di una nuova storia dell’umanità, basata sulla teocrazia, oggi tanto di moda nell’islamismo. Come tutti i regimi che si rispettino, l’Abistan cancella sia la storia, sia l’uso della ragione e della libertà e promuove una nuova lingua per plasmare un popolo unico sottomesso ai voleri di Yolah e del suo profeta Abi.
La struttura dell’impero teocratico dell’Abistan, pur dominata da un’ideologia che affonda le sue radici nell’islamismo radicale, ricalca i modelli dei grandi totalitarismi atei del ‘900, sia nei rapporti col passato, sia nella creazione di strutture capillari di controllo delle masse. Nella situazione ipotizzata da Sansal e collocata, non a caso, un secolo dopo il 1984 di Orwell accade l’imprevisto: un uomo di 35 anni, reduce da un periodo di cura in un sanatorio, comincia a nutrire dubbi sulle certezze del regime, a sperimentare e a seguire lo struggente anelito di libertà che lo anima, e a desiderare di varcare la frontiera dell’Abistan, che coincide con la terra dell’ignoto.
Ati, questo il nome del protagonista del romanzo, sa che dar corso alla domanda che lo pervade significa andare incontro alle ire del regime e alla condanna a morte come miscredente. Nonostante ciò, egli, novello Ulisse, sceglie il sacrificio di un lungo viaggio e il rischio della vita per cercare la Frontiera e puntare ad attraversarla.
Rispetto all’impero dell’Abistan, Ati è, al tempo stesso, un pericolo pubblico e un presidio di umanità. “L’apparato — leggiamo nel romanzo — può distruggerlo, eliminarlo, magari indurlo a passare dalla sua parte, riprogrammarlo e fargli adorare la sottomissione sino alla follia, (ma) non potrà togliergli ciò che non conosce (…): la libertà”.
L’esperienza di Ati è connotata dal viaggio. Anzitutto quello di ritorno dal sanatorio alla sua città di residenza, che dura quasi un anno. Poi, il viaggio al centro dell’impero, per andare a incontrare l’archeologo Nas, autore di scoperte che se conosciute potrebbero riformulare la storia ufficiale. Se nel primo caso è la nostalgia dei luoghi e dei conoscenti a dar coraggio ad Ati di fronte alle difficoltà, nel secondo caso il viaggio è un’avventura verso l’ignoto che il protagonista intraprende con un amico che mostra di condividere, sia pure con modalità sue proprie, le stesse domande “sul prima” e “sull’oltre”. Il compagno di viaggio di Ati è Koa, un credente dal cuore ribelle, socialmente tutelato perché nipote di un imam storico dell’Abistan, che viene considerato un eroe nazionale e quasi un santo.
Libertà e amicizia sono le due uniche armi di cui dispone il protagonista, in un mondo apparentemente monolitico, ma che in realtà è percorso da lotte intestine per il potere. Per controllare tutto, il sistema totalitario consente l’esistenza di figure atipiche, come Toz, un fedele al regime che, tuttavia, vive fuori-legge, in un universo tutto suo, in cui ha ricostruito un museo che raccoglie i cimeli del secolo XX, testimonianze di un “altro” mondo, la cui esistenza ufficialmente va negata. Toz, l’irregolare saggio, aiuta Ati a prendere coscienza della sua condizione di “cane sciolto”, una realtà umana impensabile nel cosmo dell’Abistan. Se quel “germoglio di libertà”, impersonato da Ati, avesse raggiunto, come egli si proponeva, l’archeologo che aveva scoperto un villaggio preesistente alle origini dell’Abistan, si sarebbe verificato un “incontro esplosivo fra la Libertà e la Verità”. L’archeologo, però, secondo un copione classico dei regimi totalitari, “sceglie” di togliersi la vita. Ad Ati, che ha perso pure l’amico Koa, non resta che chiedere a Toz il favore di esser portato alla Frontiera, perché vuole provare ad attraversarla, anche se è consapevole che c’è una possibilità su un milione di riuscirci.
Ma nella scelta fra libertà e comodità Ati non ha dubbi, egli sa che “morire nella speranza di una nuova vita (è) comunque più dignitoso che vivere nella disperazione di vedersi morire”.