Proponiamo la versione integrale della relazione che il filosofo Massimo Borghesi terrà oggi al Meeting di Rimini, nell’incontro su “Romano Guardini e Luigi Giussani in dialogo con la modernità”. Intervengono Massimo Borghesi, Johannes Modesto, Monica Scholz-Zappa. Introduce alberto Savorana.
Quando Romano Guardini è studente di teologia, nella Germania degli anni 10 del secolo scorso, l’orizzonte culturale del cattolicesimo è determinato dalla Nescolastica con il suo caratteristico medievalismo antimoderno. Segnato dal Sillabo di Pio IX, il pensiero cattolico guarda idealmente al passato, all’era medievale concepita romanticamente come era “organica”, di perfetta unione tra clero e popolo, Stato e Chiesa, fede e ragione. Ciò in antitesi alla dissoluzione moderna, in cui i poli si contrappongono e la divisione regna sovrana. Qualcosa di questo orientamento si palesa anche nei primi saggi editi di Guardini. Si tratta, tuttavia, di un periodo breve.
Quando inizia il suo insegnamento di “Filosofia della religione e visione del mondo cattolica” all’Università di Berlino, agli inizi degli anni 20, insieme alla sua attività di educatore del movimento giovanile cristiano Quickborn, la sua nuova prospettiva è chiara. Viene fissata nel volume di antropologia filosofica del 1925 dal titolo L’opposizione polare. Tentativi per una filosofia del concreto vivente. Il modello storico che viene suggerito è triadico. All’unità medievale totalizzante, “precritica”, tra Chiesa e personalità, segue la divisione e l’opposizione moderna e, da ultimo, l’urgenza di una nuova unità tra fede e ragione. Si tratta ora, però, di un’unità “critica” che nella relazione tra Chiesa e persona mantiene, al contempo, il senso delle distinzioni in modo da accogliere il valore moderno della libertà.
Come Guardini aveva scritto ne Il senso della Chiesa, del 1922, il Medioevo soffre di un «cortocircuito religioso», di una fusione troppo stretta tra sacro e profano. Per questo il compito del presente era di aprire a un rinnovato incontro tra la comunità ecclesiale e la libera personalità. Guardini anticipava qui lo storico incontro tra Chiesa e libertà moderne che si realizzerà nel documento Dignitatis humanae del Concilio Vaticano II.
Certamente agli inizi degli anni 20 egli non si identifica con il modello medievale in auge nel mondo cattolico. «Per quanto si possa amare il Medioevo per la sua ineguagliata profondità, pienezza e bellezza, non si crederà nemmeno un istante all’opportunità di scambiare la nostra situazione con quella medievale». Il “ritorno al Medioevo”, come via d’uscita dalla “crisi moderna”, è una strada impraticabile e antistorica. «L’atteggiamento medievale si è dissolto, e dopo che la Riforma e l’autonomizzazione della cultura hanno sciolto le connessioni storico-psicologiche tra cristianesimo e cultura, entriamo di nuovo a pieno nel cerchio di fuoco del problema del cristianesimo primitivo». Così scrive nel 1926. Nel 1928, a conclusione del saggio Der Glaube in der Reflexion, afferma: «Non vogliamo pensare che le possibilità di realizzazione della fede proprie del Medioevo e del Barocco siano il non plus ultra. Esistono altre sommità, più elevate ancora forse, tali ad ogni modo da trovarsi sulla nostra strada. Noi presentiamo un ardore e una profondità della fede e una capacità di superamento in essa per lo meno altrettanto grande che nel Medioevo per quanto di tutt’altro colore spirituale. Più grande proprio perché priva degli appoggi innumerevoli che il Medioevo aveva».
Il “ritorno al Medioevo” non è solo antistorico. È anche non giusto sotto il profilo ideale. La cristianità medievale è una realtà grande, non esente però da limitazioni, la principale delle quali è l’unità “organica”, “precritica”, tra Chiesa e mondo. Una sintesi troppo stretta che spiega la reazione moderna. Siamo, per Guardini, di fronte a due modelli antitetici, entrambi unilaterali. Il giusto rapporto tra Dio e la creazione «si può dissolvere in due modi diversi: quando la realtà delle cose in quanto create si obnubila e il mondo stesso si sposta nell’assoluto, ma anche quando l’assoluto religioso è visto così direttamente come il solo autentico che il finito perde lo spessore della sua realtà e del suo significato». Trionfo del mondo contro teopanismo: due prospettive devianti che si fondano sulla reciproca esclusione. Trasferito in sede storica il modello guardiniano legge l’autonomia moderna come reazione all’assolutismo medievale, una reazione che assume la forma di rivolta. Si tratta allora di separare i due momenti, la ribellione (negativa) contro Dio dalla giusta affermazione della libertà e dei diritti della persona che il modello sacrale medievale non ha adeguatamente riconosciuto:
«Sarebbe importante cercare di delineare la storia della patologia della modernità a partire dal rapporto che essa intrattiene con Dio: tale storia si rivelerebbe senza dubbio coincidente con quella del fallimento del cristianesimo. Perché capire che l’autonomia è una rivolta contro Dio e un distacco da lui significa aver compreso solo metà della questione: ci si deve chiedere anche se nella volontà di autonomia non siano compresi anche elementi positivi, che sono arrivati a maturazione nella modernità e ai quali il cristianesimo – non certo modificando la sua impostazione di base, ma accogliendoli in essa – può concedere un legittimo spazio».
Si può superare l’auto-affermazione moderna solo separando e distinguendo lo spirito di rivolta dalle giuste aspirazioni, non adeguatamente comprese nell’ottica di un soprannaturalismo dimentico della natura. «Se rifiutiamo l’atteggiamento [della modernità] per fondare l’esserci nella libertà dell’agire di Dio, ciò non significa – lo abbiamo già detto – che vada necessariamente rifiutato anche ciò che tale atteggiamento esprime di valido».
Questo rifiuto del medievalismo, insieme all’esigenza di salvaguardare la libertà della personalità, dovevano attirare sospetti e diffidenza verso l’educatore Guardini. Come quelli del dr. Carl Sonnenschein, assistente spirituale dei giovani nella Berlino degli anni 20, per il quale valeva l’idea che «”Siamo in una città assediata; perciò non ci sono problemi, bensì soltanto parole d’ordine” – osservava: “Questo motto può fare impressione, ma è sbagliato. Non si possono congedare i problemi; chi li avverte, deve applicarvisi, specialmente se è responsabile sul piano intellettuale e spirituale. La prassi autentica, cioè l’agire giusto, deriva dalla verità, e per essa bisogna lottare […] in ogni caso io mi applicavo all’interrogare e non potevo lasciarmi aggiogare alla sua prassi. So che mi ha giudicato in modo molto aspro; mi vedeva come un uomo che suscita inquietudine. In verità temo che fosse proprio così, che egli non sopportasse alcun interrogativo». A questo atteggiamento, fatto di intransigenza e di chiusura, Guardini rispondeva riscoprendo la sua natura “liberale”.
«In questi giorni – scrive nel 1924 all’amico Josef Weiger – mi ha colpito in modo del tutto particolare la profondità della “natura liberale” che ho nel mio sangue. Ho forse frainteso me stesso? Mio padre era un liberale italiano di vecchio stampo. Sangue caldo e mente fredda. […] Pieno di rispetto per ciò che è religioso, ma con una profonda avversione per ciò che è clericale. […] Era come se dentro di me rimbombi il sangue di mio padre. Prima ho sempre inveito contro il liberalismo. Ma vedi, lo si respira nell’aria!».
Di fatto, a partire dagli anni della guerra, lo spirito di Guardini mostra un’insofferenza crescente contro l’integralismo, contro il cortocircuito religioso che annulla la distinzione tra soprannaturale e naturale. Per questo alla religiosità diretta, totalizzante, preferisce quella indiretta. Scriveva a Weiger nel marzo 1915:
«Vedi, credo che l’essenza dell’integralismo consista proprio nel rifiutare questa religiosità indiretta e nel volere che la vita intera sia direttamente religiosa: se lo fa una persona sola, per sé, allora le è permesso, anche se credo che raramente una persona normale lo possa fare. L’integralismo in sé stesso cerca di creare un sistema per tutti, persino per le istituzioni pubbliche della vita ecclesiastica. E non gli riesce mai, neppure per alcune; la natura si arroga il suo diritto. Ma continua a provarci, e proprio per questo il suo effetto è così pesante e malsano. L’integralismo come tipologia psicologica ha sicuramente ragione d’esistere, così come il suo opposto, nella misura in cui rispetta i limiti e le differenze. È il tentativo forzato di collocare Dio e ciò che supera la natura nella vita piena, e di farne la parte dominante di ogni cosa. È un male per il fatto stesso di volersi imporre esclusivamente. Ed ho l’impressione che tutte le questioni: dogma e ragione; autorità e indipendenza; liturgia e vita religiosa individuale; Chiesa e Stato… siano in realtà solo parti di un interrogativo più alto. Dappertutto c’è un’opposizione […]. E qui, come sempre, la soluzione non consiste nel scegliere una cosa o l’altra, ma in relazione organica. Si tratta alla fine di una questione di misura, di senso del limite, per raggiungere un equilibrio di vita. Secondo me, è all’interno di questa relazione che si schiude il concetto di discretio. Discretio è l’arte di collocare con rispetto e attenzione gli elementi del vissuto in una relazione feconda».
In realtà Guardini patì a lungo le ristrettezze del cattolicesimo tedesco. La sua passione di educatore si scontrava con il legalismo, i formalismi, l’orizzonte clericale incapace di misurarsi con il vento impetuoso che proveniva dal movimento giovanile e dalle sfide della cultura laica.
«Ho appena letto un libro – scrive sempre a Weiger nel ’24 – che possiede grandezza, bellezza, disciplina, e una netta ostilità verso la Chiesa. […] Sono consapevole di quanta grandezza, purezza e forza creativa ci sono là fuori; e di come che produce creatività all’interno sia epigonismo; pensieri scomposti, tecniche di compromesso. […] E temo il momento in cui mi diventerà assolutamente chiaro come il vero cattolicesimo sia misero. […] Quello che facciamo noi, infatti, la gente che si dice cattolica, scrivere libri e tenere discorsi ed organizzare, tutto ciò è qualcosa di disperato che non dice niente, se il vero evento non arriva a noi da un’altra parte allora siamo alla fine».
Se il vero evento non arriva! Il mondo cattolico, chiuso nel proprio ambito, non si collocava nell’ambito richiesto: quello di una libera testimonianza in grado di accordare il soprannaturale con la natura, il cristianesimo con la ricchezza dell’umano. L’ateismo moderno non era dato semplicemente da una posizione teoretica – l’immanenza del cogito cartesiano secondo i tomisti. Esso rappresentava anche una posizione esistenziale, una scelta affettiva, una rivolta. Per questo la modernità andava affrontata non semplicemente a partire dall’antitesi, ma ponendosi sul terreno esistenziale. È la scelta che Guardini compie con le sue lezioni universitarie di antropologia cristiana degli anni 30, gli anni del nazionalsocialismo.
«Queste lezioni – scrive Guardini – si interrogano su che cosa è l’uomo nella coscienza cristiana. La questione deve essere trasposta, e senza alcuna esitazione, nel moderno stile di pensiero». Ciò significa che «l’obiettivo principale di queste lezioni è la chiarificazione dell’esperienza di esistere [Existenzerlebnis] e delle modalità in cui, nell’esistenza, un determinato cristiano incontra se stesso. In questo modo si introduce nella trattazione un elemento di grande soggettività». Questa, nella tradizione cristiana, trova il suo autore ideale in Agostino. Al punto che Agostino diviene, per Guardini, il ponte tra cristianesimo ed era moderna.
«Agostino ha stabilito un legame non solo dall’antichità al Medioevo, ma anche dall’antichità all’era moderna. I pensatori e i maestri spirituali del Medioevo hanno attinto a larghe mani dai suoi scritti, ma molti dei suoi interrogativi sono rimasti a loro estranei. A questi appartiene in primo luogo quello riguardante il modo in cui il singolo uomo si trova nell’esistenza. Quando Agostino lo pone, stavano crollando i sistemi di difesa e di sostegno che costituivano un cosmo attorno all’uomo antico e davano alla sua esistenza un’autocomprensione; così il singolo si sentiva consegnato in balia di un mondo divenuto pericoloso e di un corso della storia non più comprensibile».
Guardini pone qui Agostino in una situazione culturale ed esistenziale analoga a quella che segna i primi decenni del XX secolo. Al tramonto del mondo antico corrisponde il “Tramonto dell’Occidente” (O. Spengler), il declino dell’era moderna che si apre alle istanze problematiche del post-moderno. L’aver vissuto tale condizione, da parte di Agostino, e l’averla compresa alla luce della fede, è la dote che gli permette di entrare a pieno titolo nel teatro di una modernità in crisi, oltre le certezze proprie del mondo medievale. L’esperienza esistenziale di Agostino, illuminata dalla fede, ha un’acutezza che manca sia all’antichità che al Medioevo.
«Solo con i pensatori degli inizi dell’età moderna – per esempio nelle teorie della Renaissance sulla felicità, nelle considerazioni di un Michel Montaigne sugli aspetti singolari dell’esistenza e nelle appassionate impostazioni del problema da parte di Pascal – si fanno strada quelle domande che da quel momento non resteranno più mute. Questo modo di sperimentare la propria esistenza e di ricercarne l’essenza, che suscita inquietudine e nello stesso tempo rende accorti, compromettente e stimolante, si manifesta particolarmente evidente nei primi cinque libri di quel libro nel quale Agostino riferisce del suo cammino verso la fede, le “Confessioni”. Le domande che ci vengono poste, lo stile nel quale si sviluppa il pensiero, il modo con cui il pensatore sente la propria vita in rapporto al mondo ed entrambi in rapporto con la vita di Dio, fanno di quei capitoli una della manifestazioni più pure della moderna esperienza esistenziale».