Nel periodo moderno il “sogno americano”, figlio dell’Illuminismo, è diventato un mito che era anche un’idea-forza laica e razionalistica, con pretese pragmatistiche tanto sfrontate da ipnotizzare il cittadino e incoraggiarlo a trasformare con successo la realtà (in fondo è questo, il segreto americano: il realismo non sta al di qua, bensì al di là, dell’eccesso). Ma l’interesse maggiore di un libro recente sta nell’allargare lo sguardo — almeno nella sua prima parte — al periodo pre-moderno, quando gli Stati Uniti (e il Canada, e il Messico) non esistevano ancora.
Si tratta di American Dream. In viaggio con i santi americani, a cura di Mathieu S. Caesar e Pietro Rossotti (Marietti, 2016). Frutto di un lavoro di gruppo che ha coinvolto professori e studenti universitari di Stati Uniti, Canada e Svizzera, coordinati da Emanuele Colombo, questo libro è un’attenta rassegna con ricco corredo bibliografico, che si muove tra storia e agiografia (con una particolare insistenza nell’Epilogo su questa seconda dimensione). Il libro è diviso in quattro parti, che corrispondono ad altrettanti periodi storici e zone geografiche diverse. Si comincia con “I martiri gesuiti nordamericani” (1642-1649), nell’area del Québec e parte dell’odierno Stato di New York; poi ci si sposta sulla costa occidentale, con le attività fra odierna California e odierno Messico del frate minore Junípero Serra (1713-1784), la figura religiosa di maggiore importanza nella storia della California; in seguito si balza ancora più a ovest, nell’Oceano Pacifico, per descrivere l’apostolato del missionario belga Damien de Veuster (1840-1889) nelle isole Hawaii (è soltanto nel 1959 che le Hawaii divengono il cinquantesimo fra gli Stati Uniti), dove padre Damien vive fra i lebbrosi nell’isola di Molokai, e muore come uno di essi; infine si torna al Nord-Est, e precisamente allo Stato di Pennsylvania, dove Katharine Drexel (1858-1955) nasce, a Filadelfia, e dove comincia a elaborare la sua vocazione di educatrice, fondando —in lungo e in largo per gli Stati Uniti — scuole per afroamericani e nativi americani.
Come gli autori stessi riconoscono, il termine che dà il titolo alla loro ricerca è “provocatorio e insolito”: con l’eccezione della Drexel, tutti questi “santi” sono nati in Europa (anche se all’America hanno dedicato la loro esistenza), e il sogno di cui si parla è quello “di portare Gesù nel continente americano attraverso la propria testimonianza e il dono gratuito della propria vita” (p. 11). Inoltre il sogno qui entra anche a contrario: costoro si occupano di “chi era rimasto ai margini del sogno americano” (p. 191).
Questi missionari pre-moderni portano la loro testimonianza spirituale in un mondo che, almeno a prima vista, non ha molto di spirituale: essi fanno parte di una comunità di colonizzatori che importa per sua natura nel Nuovo Mondo malattie nuove che decimano le popolazioni native (vedi p.19, e altrove); i missionari entrano inoltre, volenti o nolenti, in un panorama politico complicato e spesso velenoso, che trasferisce in America i conflitti nazionali d’Europa coinvolgendovi le popolazioni native, e dove altre confessioni cristiane sono in competizione con i cattolici per la conquista delle anime.
Gli autori menzionano a un certo punto gli “interrogativi che sorgono di fronte all’opera missionaria: come leggere oggi, nel mondo postcoloniale e postmoderno, la storia delle missioni cristiane e qual è il ruolo di un missionario nel mondo in cui viviamo?” (p. 91). Il libro non si offre di dare risposta a questi interrogativi, e tanto meno lo presume il sottoscritto. Ricordo soltanto un’acuta osservazione di papa Francesco, che potrebbe offrire lo spunto a tutta una ricerca fra spiritualità e psicologia: “La missione nasce sempre da una vita che si è sentita cercata e guarita, trovata e perdonata” (da un’omelia del settembre 2015, citata a p. 94).
Due osservazioni, per concludere, su due immagini nelle quali l’estetica si rivela come componente essenziale dell’esperienza spirituale, e della sua descrizione. La prima riguarda la più bella di gran lunga fra tutte le lettere raccolte in questo libro: si tratta della lunga lettera che il padre gesuita Charles Garnier scrive nell’aprile 1638 al fratello Joseph in Francia, il quale vive un’esperienza di crisi spirituale (pp. 63-68). Charles, in lotta per la sopravvivenza e sempre sull’orlo del martirio (che incontrerà una decina d’anni più tardi) trova tuttavia il tempo e l’energia mentale per svolgere un’analisi profonda e simpatetica, scritta nello stile di quello che è stato giustamente chiamato “il gran secolo” in Francia, della situazione d’anima di Joseph.
Infine, un’immagine della vita di Damien de Veuster, la cui decisione di vivere nell’isola dei lebbrosi era permanente e irrevocabile: chi vi risiedeva non poteva più uscirne, e le visite erano molto difficili. “Un giorno, quando al vescovo Maigret giunto in visita fu vietato di attraccare all’isola, Damien si avvicinò con una barca alla nave su cui si trovava il vescovo e si confessò a distanza, ad alta voce in francese” (p.128; il francese era la seconda lingua di Damien, la cui lingua madre era il nederlandese). Ci sarà un poeta o un grande regista che vorrà descrivere questa confessione urlata al vento e al mare?