Ci vuole un bel coraggio per dire “Tu sei un bene per me” — come recita il titolo del Meeting di Rimini di quest’anno — anche di fronte a uno sconosciuto. Uno che arriva da lontano, diverso da te per la lingua che parla, per le sue abitudini, per il suo modo di vivere. Cosa permette di dirlo? Cosa consente di non incasellarlo a priori nelle categorie della paura o dell’indifferenza? “Migranti, la sfida dell’incontro”, una delle mostre-clou del Meeting, prova a rispondere. Non anzitutto ricorrendo a un’analisi o schierandosi o appellandosi a buoni sentimenti, ma proponendo un percorso di immedesimazione nelle vicende umane di chi lascia la propria terra in cerca di un futuro migliore.
Sono 244 milioni le persone che vivono in un Paese diverso da quello in cui sono nate, 60 milioni i rifugiati, 1 milione 250mila coloro che nel 2015 hanno chiesto asilo o protezione umanitaria nell’Unione Europea, più di 3mila i morti annegati nelle acque del Mediterraneo quest’anno. Numeri che danno la misura di un fenomeno epocale, che sta cambiando il volto di interi Paesi, che mette in discussione equilibri secolari, che pone interrogativi nuovi. Ma anche ai numeri ci si può assuefare, se non si scorge la carne. Lo dice a chiare lettere Papa Francesco, e non è un caso che la sua frase campeggi all’ingresso della mostra: “Non bisogna mai dimenticare che i profughi non sono numeri, sono persone: sono volti, nomi, storie”.
Il visitatore viene accompagnato in un percorso che è insieme di conoscenza e di incontro.
La prima è necessaria per capire che i flussi migratori diretti verso l’Italia e l’Europa sono le conseguenze di scenari economici, bellici, politici, etnici, ambientali di cui ci rendiamo conto solo quando ne misuriamo le conseguenze in casa nostra. Occorre alzare lo sguardo, e rendersi conto che non stiamo attraversando “solo” un’epoca di cambiamenti, ma un vero e proprio cambiamento d’epoca. Lo ricordano le storie dei migranti raccontate sulle pareti e nei video della mostra. Per questo, conoscenza e incontro vanno insieme. Per questo ogni giorno, due volte al giorno — alle 14.15 e alle 18.15, in uno spazio attiguo alla mostra — vengono proposti dialoghi con migranti che raccontano le loro storie o con persone che si sono misurate con il tema della migrazione e soprattutto hanno accettato la sfida dell’incontro.
Al centro della mostra campeggia la Croce di Lampedusa, costruita da un falegname dell’isola con le assi di uno dei tanti barconi approdati in questi anni con il loro carico di dolore e di speranza. Non un sacrario per i “caduti delle migrazioni”, ma un modo per fare memoria che tutto il dolore del mondo — anche quello dei migranti morti in mare — partecipa del sacrificio che Cristo ha compiuto sul Calvario. Un sacrificio fatto per tutti, senza distinzioni di razze e nazionalità, dal quale possiamo imparare cosa vuol dire incontrare “l’altro”, quanto l’altro sia necessario per il compimento della nostra umanità, quanto la nostra identità sia alimentata dal confronto e dalla conoscenza.
In una stagione in cui la parola identità viene concepita come una fortezza da difendere dagli assalti dei nemici, o come una spada da brandire contro coloro che attentano ai “nostri valori”, la mostra propone esperienze che testimoniano la possibilità di una convivenza tra persone che provengono da percorsi sociali, culturali e religiosi differenti. Non sono tutte rose e fiori, si dirà… E certamente la convivenza è frutto di una fatica quotidiana e non è immune da contraddizioni e da conflitti. Ma la storia ci sta proponendo una sfida alla quale non possiamo sottrarci.
Le migrazioni rilanciano un interrogativo fondamentale: chi è l’altro per me, cosa rende possibile incontrarsi e convivere? Ricevendo il Premio Carlo Magno, il 6 maggio 2016, Papa Francesco ha messo in luce lo smarrimento che pervade il Vecchio Continente, tentato di “voler assicurare e dominare spazi più che generare processi di inclusione e trasformazione”. Si è domandato: “Che cosa ti è successo, Europa umanistica, paladina dei diritti dell’uomo, della democrazia e della libertà?”. E ha auspicato “un’Europa capace di dare alla luce un nuovo umanesimo basato su tre capacità: la capacità di integrare, la capacità di dialogare e la capacità di generare”, invitando a riscoprire “l’ampiezza dell’anima europea, nata dall’incontro di civiltà e popoli”. È il sogno di un nuovo umanesimo, che accetta la sfida dell’incontro sottesa ai grandi spostamenti migratori. Una sfida che riguarda i governanti e i grandi decisori, ma che non può lasciare indifferente nessuno di noi.