C’è stato un tempo in cui “rispondere per le rime” non era ancora un modo di dire, ma l’espressione di una pratica reale: la pratica di un poeta che, invitato da un altro a misurarsi su un tema attraverso un sonetto detto “di proposta”, si cimentava a rispondergli, usando le stesse rime del primo nelle stesse posizioni in cui questi le aveva usate. Rispondendogli, cioè, letteralmente “per le rime”.



Nella nostra letteratura, questa pratica prende piede con la formazione di una lingua poetica comune e, insieme ad essa, di una rete di rapporti tra i poeti che questa lingua contribuivano a lavorare e modellare. Gente strana fin da allora, i poeti: liberi professionisti del tempo — molti avvocati, molti segretari e impiegati di corte, a volte potenti ma spessissimo più precari degli attuali millennials — che a fine giornata non trovavano di meglio da fare che “ragionare in versi”; e che ragionando in versi si comunicavano l’un l’altro i propri raggiungimenti, sfidandosi sul piano concettuale nei casi più seri o su quello dell’abilità tecnica nelle occasioni più giocose. Sì, perché l’arte, questo non va scordato mai, nasce sempre da un punto di sfida, da un’ammirazione per l’oggetto o per la sua rappresentazione che mette in moto l’artista a fare meglio dell’ammirato. 



È una dinamica naturale che nel periodo dello Stilnovo raggiunge un’acme raramente eguagliata — per intensità, freschezza e libertà dal manierismo — nei secoli seguenti. Perché se è vero che ancora nel nostro Novecento ci sono scambi meravigliosi, si pensi ad esempio a quello tra Pasolini e Bertolucci, è altrettanto chiaro che tali scambi sono più episodici e circoscritti in un rapporto a due, ad amicizie particolari tra artisti, a influenze e ammirazioni in cui il lato di sfida comune e di accompagnamento comune verso una comune conoscenza cade sempre più o meno volontariamente in secondo piano. Né sono paragonabili i tentativi delle avanguardie novecentesche di “fare gruppo”, proprio perché più immediatamente tesi a fare gruppo che non a puntare un obbiettivo e sostenersi nel raggiungerlo, come dimostra il fatto che l’amicizia tra avanguardisti riposi, anzi si appoggi senza riposarsi, sull’inimicizia verso quel passato che volenti o nolenti ci impronta e che si chiama tradizione.



Un problema, quello dell’inimicizia verso il passato, che se anche si esprime in maniera evidente in campo culturale, come ogni fatto culturale affonda in un abito sociale tanto pervasivo quanto impercepito. Lo vediamo infatti, questo disprezzo per il passato, nel disprezzo per la condizione presente che sempre più ci ritroviamo indosso, nella rabbia sorda e diffusa che ci scambiamo in conversazioni smozzicate e spente, negli affanni e nelle preoccupazioni che ci soverchiano e in cui è facile, facilissimo affondare come nelle sabbie mobili. 

Sempre attentissimo ai legami tra cultura alta e filosofia pratica, già negli anni Settanta il compianto Rodolfo Quadrelli, di cui già abbiamo parlato su queste pagine, riconduceva a questa inimicizia la disgregazione umana e culturale della modernità, costretta a dover disprezzare il passato per affermare la propria esistenza e il proprio presente. Perché sì, anche “Aristotile, ovvero il filosofo per coloro che ora chiamiamo antichi, praticava […] la dossografia, cioè la rassegna dei filosofi precedenti“; solo che “li confutava soltanto come sodali o amici, parimenti impegnati nella ricerca della verità (Filosofia delle parole e delle cose, p. 19). Non relegava cioè la tradizione e ciò che essa trasmette a un lacerto di passato inesorabilmente da scartare. Usava quella “simpatia preventiva” necessaria alla conoscenza che Benedetto XVI chiedeva al lettore nell’introduzione al suo primo libro sulla vita di Gesù. Perché senza questa simpatia, continua Quadrelli, quando cioè “questo atteggiamento diventa metodo, sia esso il dubbio (metodico) o la critica, i predecessori devono fare la parte degli ingenui, ed è la categoria dell’ingenuità più che non quella dell’errore che fa di essi, per la prima volta, gli ‘antichi’(Filosofia delle parole e delle cose, p. 19). Antichi, cioè sorpassati, inascoltabili, come molte pseudo-mitologie sul nuovo che avanza e sulle presunte rottamazioni in atto o a venire ci suggeriscono con insistenza.

Non è questione di rispettare il passato, quanto di rispettare il presente; non di rispettare l’altro, quanto di rispettare sé. Perché se ciò che mi precede e mi informa non ha valore, il mio valore non esiste, a meno che non me lo conquisti da solo: con brama, violenza, e sopraffazione. E con un ultimo odio inconfessato di cui — prima di investire il prossimo — investo me stesso, sempre proiettato a un modello irraggiungibile e mai capace di accettarmi come dato e di amare il presente. Questo, infatti, ognuno può vederlo, accade quando si delega alla novità il compito di colmare quella sete di conoscenza che sola ci muove: la distruzione di ogni stima di sé, dell’altro e della discussione civile.

Quella discussione, quella tensione comune alla conoscenza e alla scoperta che Dante, in un arcinoto sonetto, pone come inizio e fine dello stare insieme, della vera amicizia: quell’amicizia per cui, “vivendo in uno stesso talento,/ di stare insieme crescesse il disio (“Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io”, 7-8). Quell’amicizia per cui ci sia consentito piangerci in faccia l’un l’altro e farci la sola vera domanda. Non “che cosa devo fare”, ma “che vuol dir questa/ Solitudine immensa? ed io che sono? (“Canto notturno di un pastore errante dell’Asia”, 98-99).