La storia (e dunque la storiografia) sta vivendo una crisi profonda. Povera di grandi sguardi, di idealità incarnate, di respiro, sembra ripiegarsi su se stessa, contenta da una parte della sua pedante meticolosità o, dall’altra, della sua ancillarità a una contemporaneità che richiede patenti di legittimità. Ed eccola pronta, la storiografia, a esser chierica di un presente che non passa mai.
Certo anche la storia paga il prezzo della volubilità emotiva della nostra società occidentale, caratterizzata da una solitudine diffusa, da una presunta relazione digitale dilatata, da una fragile e ambigua democrazia della comunicazione. Così, persa la solidità dell’esperienza, il prezzo della scelta, la forza dell’azione, la bellezza della biografia, l’altezza della politica, la coscienza del destino, che può dire la storia? Ma soprattutto, chi è lo storico?
La scomparsa, pochi mesi fa di Fausto Fonzi, il ricordo del decennale della morte di Giorgio Rumi e del ventennale di Renzo De Felice: gli anniversari servono quanto meno per fare il punto della situazione della stagione storiografica presente, alla luce della grande lezione che questi storici ormai scomparsi hanno lasciato. Se a questi giganti affianchiamo Gabriele De Rosa, morto nel 2009, Franco Della Peruta morto nel 2012, Mario Bendiscioli, morto nel 1998, e Rosario Romeo, scomparso nel 1987, si comprende come tra gli anni Sessanta e Novanta, la storiografia della contemporaneità italiana abbia potuto vivere una stagione davvero felice e proficua.
Cosa resti di quella lezione, al di là delle sparute celebrazioni e del ricordo personale di allievi e amici, è tutto da verificare. E tuttavia, in un momento complesso quale quello che stiamo vivendo, la lezione e le chiavi di lettura di quegli storici, ci sarebbero davvero utili. Innanzitutto perché, pur percorrendo strade diverse, legate alle storie personali e alle culture di ciascuno, quegli studiosi ci hanno fatto meglio comprendere chi siamo stati e chi siamo. Hanno smontato i meccanismi semplificati dell’ideologia e delle appartenenze acritiche, per ricondurci dentro il corpo vivente e operante della nostra italianità.
Ci hanno detto chiaro e tondo che i drammi e le resurrezioni che abbiamo vissuto nel Novecento dovevano essere ripensati alla luce della nostra identità complessa, che il male che avevamo troppo sbrigativamente estroiettato e appiccicato ad altri, risiedeva dentro di noi, in quella zona grigia della nostra coscienza che ci appare talvolta indicibile. Così si venivano delineando i contorni del nostro essere Nazione e poi Stato. Venivano snocciolati gli apporti creativi e insieme i limiti delle diverse anime di questo Paese articolato, i loro linguaggi, le loro relazioni, il complesso cammino di conquista del nostro essere italiani.
Per oltre un trentennio abbiamo avuto la fortuna di possedere una narrazione civile della nostra identità che ha potuto guidare, non senza difficoltà, la politica, il terreno di compensazione delle nostre differenze. Oggi, senza quei cercatori e quei narratori, il racconto di noi stessi si è impoverito. Affievolitosi il pathos civile, la storiografia si è come ripiegata su se stessa, in una marginalità imposta dalla più ampia marginalità della cultura, dalla tentazione di usare la storia per fini immediati, per giustificare gli eventi, per decretare vincitori e vinti momentanei.
Nessuno sa più raccontarci chi siamo e perché siamo. Nessuno sa più sondare la zona grigia della nostra coscienza, additarci la strada percorsa e, in prospettiva, la strada da percorrere. Si sa, la Storia è un poco Cassandra, che dice la verità ma non è creduta. La questione appare oggi ancor più triste: Cassandra rischia di dire banalità o di avvitarsi in un particolarismo scientifico inadeguato a raccontare la realtà. Quegli storici, di cui celebriamo gli anniversari, al rigore della ricerca impegnato a comprendere “la logica dei fatti”, affiancavano una visione, una passione civile non partigiana, dicevano sempre chi erano e cosa pensavano, senza nascondersi dietro una falsa presunzione di imparzialità. Eppure costruivano, insieme, in un legame che era anche umano, d’amicizia.
Forse, a fare la differenza vi è stata l’esperienza diretta della dittatura e della guerra, l’aver visto e respirato l’odore acre del peggiore Novecento, l’aver gustato la gioia della rinascita ove tutto era speranza e l’aver constatato, nella decadenza di ogni afflato civile e culturale, una sorta di sconfitta della storia. Da qui, quella che Henri-Irenée Marrou definiva la “tristezza dello storico”: “Quando la crisi si è abbattuta sulla cultura, noi siamo stati i primi ad essere travolti come paglia e polvere”.
Così, venuta meno ogni “amicizia” tra gli uomini, in questa solitudine autoreferenziale in cui ciascuno ritiene di essere il centro dell’universo, di avere parole significative che si fanno beffa dei poeti e dei filosofi, ma cercano consensi effimeri accompagnati dai geroglifici delle emozioni, allo storico spetta il destino “del retore e del saltimbanco ufficiale al servizio della città totalitaria”. E senza storia, andiamo piano piano realizzando una sorta di autofascismo delle opinioni, delle emozioni, delle illusioni.