«Chi è questo Ludovico Ariosto che alle gesta cavalleresche non crede, eppure investe tutte le sue forze a rappresentare scontri di paladini e d’infedeli in un poema lavorato con cura minuziosa? Chi è questo poeta che soffre di come il mondo è e di come non è e potrebbe essere, eppure lo rappresenta come uno spettacolo multicolore e multiforme da contemplare con ironica saggezza?»
Le domande di Italo Calvino, poste a sé stesso e al pubblico letterario nel 1968, risultano ancora oggi una chiave di lettura estremamente acuta dell’Orlando furioso, a cinquecento anni esatti dalla prima pubblicazione dell’opera (1516).
«Ariosto – continua Calvino – sembra un poeta limpido, ilare e senza problemi, eppure resta misterioso: nella sua ostinata maestria a costruire ottave su ottave sembra occupato soprattutto a nascondere se stesso». Niente di più vero: Ariosto mette in scena i suoi personaggi, li fa innamorare, li fa incontrare (o scontrare) e li fa duellare, in un mondo che sembra più che altro un palcoscenico sul quale agiscono unicamente loro, mentre innumerevoli comparse restano a far da sfondo; Ariosto descrive viaggi fantastici, avventure, azioni eroiche, oggetti magici, velamenti e disvelamenti; racconta storie d’amore, a tragico o a lieto fine, corteggiamenti coronati da successi o insuccessi, alti sentimenti e passioni animalesche; egli arriva infine ad esplorare gli antri più oscuri del cuore umano, e l’esempio più ovvio è la tragica pazzia per amore di Orlando. Dopo tutto questo, e attraverso tutto questo, Ariosto veramente si nasconde: se su tutto un tale complicato, intricato e movimentato panorama è steso il sottile velo filtrante dell’ironia, il volto del poeta è a sua volta velato, quasi nascosto dietro a un enigmatico sorriso.
Ci sono tuttavia alcuni luoghi dell’opera nei quali Ariosto sembra per un momento spuntare dalla tenda del palcoscenico per parlare col pubblico, o dove – ancora di più – egli pare aprire per un momento le segrete del suo cuore al lettore: si tratta degli esordi dei canti. Travolto dalla velocità con cui le azioni e i personaggi si susseguono, a chi legge sembra quasi di poter evadere per un momento dagli affanni della vita quotidiana, per viaggiare divertito in un mondo totalmente “altro”, magico e oltre qualsiasi logica. Ma la maggior parte delle volte gli esordi, insieme agli altri interventi autoriali nei canti (rari ma comunque presenti), servono invece all’autore per puntualizzare, e per intessere una sorta di tela ragionativa leggibile come una chiave interpretativa del poema e delle sue vicende, soprattutto della sua ironia.
Vediamo ad esempio l’esordio al canto II:
Ingiustissimo Amor, perché sì raro
corrispondenti fai nostri desiri?
onde, perfido, avvien che t’è sì caro
il discorde voler ch’in duo cor miri?
Gir non mi lasci al facil guado e chiaro,
e nel più cieco e maggior fondo tiri:
da chi disia il mio amor tu mi richiami,
e chi m’ha in odio vuoi ch’adori et ami. (II, i)
“Amore estremamente ingiusto, perché così poche volte permetti che i desideri di due persone corrispondano? Perché ti è così cara la discordia fra due cuori?”. È il lamento di Ariosto. “Non mi permetti di giungere all’amore limpidamente corrisposto, e mi trascini nell’amore contrastato e tormentoso: mi sottrai a chi desidera il mio amore, e vuoi che io adori e ami chi mi ha in odio”.
Chiaramente, un esordio del genere (insieme ai due versi successivi, che fanno da connettivo con la materia narrata: «Fai ch’a Rinaldo Angelica par bella, / quando esso a lei brutto e spiacevol pare») ci permette di comprendere più a fondo ciò che avverrà nel canto, e cioè i ridicoli inseguimenti compiuti da Rinaldo, per giunta ingannato da un’immagine, il quale – distante anni luce dal suo dovere di paladino – insegue bramoso una donna, Angelica, che lo odia. L’ironia, l’ilarità con cui Ariosto sembra presentarci questi affannosi inseguimenti si ammanta di malinconia e tragicità se filtrata dal lamento d’esordio su Amore: questo raggiunge quindi un duplice scopo, da un lato accennando all’ironia come possibile distanziamento da quella materia dolorosa che è la contraddittorietà della vita, dall’altro rivelando che, forse, il mondo fantastico e incredibile del Furioso è meno lontano di quanto si creda dal dramma del mondo reale, il nostro.
Ariosto spesso insiste sulla validità ricorrente delle leggi che regolano la vita e l’umano agire, leggi quasi sempre incomprensibili quando non palesemente ingiuste. Nella lettura del Furioso si oscilla fra lo smarrimento piacevole nelle vicende di una dimensione totalmente altra, fantastica, e la sensazione di essere in fondo anche noi perduti nelle stesse selve dei personaggi.
Un esordio di intonazione analoga al precedente è quello del canto VIII, laddove si lamenta l’arte di incantatrici e incantatori che – dissimulando le loro reali apparenze – fanno innamorare di sé le persone legandole con lacci impossibile da sciogliere:
Oh quante sono incantatrici, oh quanti
incantator tra noi, che non si sanno!
che con lor arti uomini e donne amanti
di sé, cangiando i visi lor, fatto hanno.
Non con spirti constretti tali incanti,
né con osservazion di stelle fanno;
ma con simulazion, menzogne e frodi
legano i cor d’indissolubil nodi.
Chi l’annello d’Angelica, o più tosto
chi avesse quel de la ragion, potria
veder a tutti il viso, che nascosto
da finzione e d’arte non saria.
Tal ci par bello e buono, che, deposto
il liscio, brutto e rio forse parria.
Fu gran ventura quella di Ruggiero,
ch’ebbe l’annel che gli scoperse il vero.
La fortuna di Ruggiero, incantato da Alcina e per questo irretito dall’amore per lei, è stata ricevere in dono l’anello di Angelica, che gli ha permesso di scoprire il vero, cioè le reali sembianze – alquanto misere e orribili – della maga. E che la vicenda fantastica sia una sorta di mediazione per comunicare un contenuto ben più profondo è detto dallo stesso Ariosto in due passaggi: quando precisa che gli incantatori solitamente non sono tali per via della magia, ma per via delle loro menzogne, e nel momento in cui stabilisce un rapporto quasi allegorico tra l’anello di Angelica e “quel de la ragion”, cioè la capacità di discernere la verità. Solo questa potrebbe costituire una sicura via d’uscita dalle acque contrastanti e tempestose della vita, ma per l’epoca di Ariosto (e forse anche per la nostra) sembra essere una merce rara.
«L’allusione [del poeta] alla propria vicenda umana non intende affatto portare un’istanza autobiografica nel poema; ma stabilisce un vincolo tra il cuore del poeta e il mondo della sua poesia», ha scritto Franco Pool rispetto al Furioso. Ed è certamente così: innanzitutto, il dramma di Ariosto non nasce da qualche sfortunata e personale storia d’amore alla corte degli Este, ma è frutto di una profonda riflessione sulla condizione umana; in secondo luogo, non si può parlare con De Sanctis di poema «in cui non c’è il poeta», ma piuttosto è necessario cogliere che, nell’incessante andirivieni dei personaggi, una sola figura resta sempre con noi, ed è proprio quella del poeta.
Le intrusioni dell’autore, e soprattutto gli esordi dei canti con il loro spessore ragionativo, ci svelano il pianto che si nasconde (forse) dietro la maschera sorridente e maliziosa di Ariosto. Il pianto dunque come punto di partenza e il sorriso come punto d’arrivo di un cammino che passa per la disillusione: Ariosto è commosso d’una profonda commozione segreta, ma allo stesso tempo deride questa sua commozione e tutto il dolore dei personaggi, come prendendo coscienza della loro inutilità. Eppure i conti non tornano: al termine del poema il cuore del lettore non è pacificato in questa conclusione, perché non lo è nemmeno quello del poeta. Il senso di contraddizione che rimane e che trasuda dai versi ariosteschi sembra lasciare aperta la porta di un’insoddisfazione che può trasformarsi in flebile speranza: speranza di un possibile significato nella grande e incomprensibile tempesta della vita.