L’ultima tappa di questo itinerario sulla raffigurazione della donna per il tramite della Scrittura è costituita dalla Maddalena penitente di Caravaggio, dipinto databile alla fine del XVI secolo (si ritiene tra il 1594 e il 1595). Si tratta di una penitenza ancora più netta e faticosa di quella immaginata da Donatello, eppure siamo in presenza di una Maddalena ancora più pienamente e consapevolmente umana di quella di Piero della Francesca. La prima andava incontro al digiuno e all’astinenza, la seconda all’illuminazione. La Maddalena di Caravaggio rischia di sembrare nel vicolo cieco del peccato, della sofferenza e della rassegnazione. 



La statua di Donatello era vestita di stracci, l’affresco di Piero della Francesca si proiettava in una trascendenza che riesce a mettersi a colloquio con ogni tempo. La “dama” di Caravaggio è una donna dei suoi giorni, a partire dal vestiario. La modella dell’opera fu forse la giovanissima prostituta Anna Bianchini. Questo dettaglio, nella vita del Caravaggio, è spesso enfatizzato: Caravaggio dipingeva a partire dai modelli di cui si nutrivano la sua azione, la sua esistenza, la sua esperienza. Ma non tratteggiava parallelismi tra il proprio vissuto e i disegni universali del Creato: la raffigurazione veridica sin quasi alla violenza non significava affatto sbarrare la strada alla spiritualità, alla interiorizzazione e al travaglio intimo e personale. 



E parimenti paiono infondate le accuse di antistoricità: prostitute e locandiere dipinte con vestigia sacre per essere tollerate dalla cultura ufficiale. Non è questa la strategia “narrativa” di Caravaggio. Anzi, la sua opera è sempre vivace, in presa diretta, talvolta con un evento che sconvolge il piano del racconto e folgora esattamente un preciso istante. 

La Maddalena di Caravaggio non è perciò Anna Bianchini travestita da Maddalena. È la raffigurazione della Maddalena impersonata nella mente dell’artista da un soggetto presente in carne e ossa, a prescindere dalla sua identificazione puntuale. La veste è larga, disordinata, eppure in essa allo sguardo prevale non il tono scuro e patito circostante, bensì il candore delle maniche. La pelle diafana e liscissima sembra introdurci alla contrapposizione tra ciò che si crede e ciò che si è compiuto, tra ciò che identifica i nostri valori e le maldestre modalità di attuazione che loro assegniamo nella quotidianità. 



La penitenza per Caravaggio è precipuamente il volto di una donna esausta e sfiancata. Quasi dormiente, “accucciata” sul suo dolore. Non c’è la rappresentazione vittoriosa dell’ampolla con cui viene purificato e deterso il Cristo. Essa non rappresenta ancora per la penitente la possibilità di ascendere partendo dalla propria limitata esperienza carnale e cercando di fronteggiarne i limiti e i fallimenti. 

Più che il lato agiografico-teologico, a Caravaggio interessa il lato umano, anche drammaticamente e teatralmente umano. Riesce così a dipingere il volto sfiancato, il dolore profondo, lo sfinimento fisico. Quello sfinimento però non è l’ipoteca sul futuro della vita: guardarlo negli occhi è il solo modo per dragarne il fiume.