Dopo il saggio su Giulia, la figlia di Augusto (2012) e quello più recente dedicato ad Agrippina, la sposa di un mito (2015), Lorenzo Braccesi conclude la sua trilogia sulle donne della famiglia di Augusto con Livia, la consorte del primo imperatore. E se il volume su Agrippina era dedicato “a tutte le donne come Agrippina, nevrotiche e caparbiamente innamorate”, e quello su Giulia, a tutte le donne “libere, affascinanti, ribelli”, come la figlia di Augusto, ora Livia (Salerno, 277 pp., 18 euro) è per “tutte le donne come Livia, da cui guardarsi”. 



Ed effettivamente, la consorte di Augusto, passata indenne attraverso la fase tempestosa delle guerre civili, figlia di un padre schieratosi dalla parte dei Cesaricidi e morto suicida sul campo di Filippi, moglie di un proscritto in seguito ai tempi della Guerra di Perugia, poi moglie di Augusto, che la prese in sposa sedotto dalla sua bellezza, dimostrò, nella sua lunga vita (morì ottuagenaria, età quasi eccezionale per l’epoca), di essere una politica consumata, degna consigliera — sotto le apparenze della moglie accomodante (uxor facilis) — dell’uomo che, con l’ipocrita ed equilibristica formula della Res publica restituta, traghettò Roma dagli scontri armati del dopo Cesare al Principato. 



Giustamente il pronipote Gaio, che diventerà imperatore con il nome di Caligola, la definiva “un Ulisse in gonnella” (Suet. Cal. 23), rimarcando come anche la sua bisnonna avesse saputo agire con la pazienza, l’astuzia, l’attendismo tra astuzie e raggiri. 

Sullo sfondo del volume, però, il vero protagonista, idolo ma anche vittima delle mille astuzie politiche di Livia, è Tiberio, il suo primogenito: infatti, Braccesi impernia gran parte del saggio sulla strategia di Livia, che con ogni mezzo volle garantirgli la successione. Ed egli, secondo l’autore vittima di questo legame definito senza mezzi termini “malato” con la madre, avrà la vita segnata da questa affezione per un lato strettissima, per l’altro limitante. Già Svetonio (Tib. 6) indicava le radici dell’instabilità psicologica di Tiberio nelle sofferenze patite nella primissima infanzia, segnata dalle fughe per sfuggire agli sgherri di Ottaviano, che gli sarebbe stato patrigno: addirittura, dice Svetonio, “un incendio improvviso (…) avvolse così da vicino la comitiva che Livia si bruciò parte delle vesti e delle chiome (pars vestis et capillis)!”. Nell’episodio Braccesi vede “una doppia premonizione: di sofferta dipendenza dalla madre per lui; di incrollabile volontà nel proteggerlo, sempre e comunque, per lei”; addirittura, parla, senza mezzi termini, di “complesso di dipendenza materna” (p. 226). 



Livia esamina dunque le contorte vicende matrimoniali della casata Giulio-Claudia: se nell’aristocrazia romana il matrimonio era il miglior suggello di alleanze fra gentes, e quindi frequentissimi erano i divorzi, cui tenevano dietro velocissime nuove unioni, ciò è vero al massimo grado per la famiglia di Augusto, il quale non ebbe figli da Livia. 

Quest’assenza di discendenza diretta, su cui Braccesi si sofferma a lungo, è anche il motivo di tutta una serie di matrimoni politici: infatti, Livia diventerà prima matrigna e poi suocera di Giulia, l’effervescente, provocatrice figlia dell’autocrate, amante di trasgressioni che alle smodate ambizioni politiche di Livia dovevano sembrare capricci infantili. Due volte vedova, del cugino Marcello prima e del grande Agrippa poi, Giulia verrà così fatta sposare con Tiberio, costringendo quest’ultimo a ripudiare l’amatissima moglie Vipsania, allora per giunta incinta. I due, cresciuti insieme nella grande casa sul Palatino, non potevano essere peggio assortiti, e il matrimonio cementerà quell’ostilità che finirà con la condanna clamorosa di Giulia (nel 2 a.C.), ufficialmente per adulterio, in realtà condanna politica di questa “astratta sognatrice, del tutto avulsa dalla concretezza della politica” in seguito alla cospirazione ordita con Iullo Antonio, figlio di Marco Antonio, il più amato dei molti suoi amanti, “cervellotico congiurato da biblioteca (…) inconcludente e vanitoso come tutti i poeti” (p. 139).

Il volume, mostrandoci la lotta senza quartiere consumatasi, nella domus imperiale, fra gli eredi di sangue “giulio” e quelli di sangue “claudio”, di fatto, ci fa riflettere su come la storia viaggi frequentemente per paradossi: morti anzitempo tutti i possibili eredi (Marcello, Gaio e Lucio Cesare, Germanico), ad Augusto doveva succedere sul trono il figlio di un suo proscritto, nipote di un fiero sostenitore della libertas repubblicana; peggio ancora, egli, pacificatore dell’orbe, “sovrumano artefice della pace universale” (p. 131), nel privato della sua domus non aveva la pace, ma la guerra, ed era prigioniero delle reti, sempre più avvolgenti, di cui lo circondava una moglie dalla volontà di ferro”.