Colmo è di bontà. Ma nessuno comprende/ da solo Dio. Ma dove è il pericolo, cresce/ anche ciò che dà salvezza

E’ un verso tratto dagli Inni tardi di un poeta tedesco ormai pazzo e lasciato in custodia a un cireneo, tale Ernst Zimmer di professione falegname; il buon uomo aveva letto e apprezzato il suo romanzo Iperione per cui lo accoglie nella sua casa di Tubinga, in una stanza circolare ai piani superiori, che viene per questo chiamata “la Torre”. Lì Friedrich Hölderlin, nato il 20 marzo del 1770, morirà il 7 giugno del 1843 dopo avervi trascorso ben trentasei anni in solitudine.



La diagnosi di schizofrenia pare sia corretta, confermata da numerosi documenti e testimonianze storiche lasciate dai suoi sempre più rari visitatori; le sue ultime opere ne portano evidente traccia, anche se proprio nelle Poesie della Torre ci sono scintille infiammate. Di questo materiale fiammante e infiammabile tratta il preciso e coltissimo saggio di Francesco Roat, il cui merito è tanto innegabile quanto misconoscibile: è troppo facile passare inosservati nell’odierno panorama letterario, a chi può interessare sapere di un poeta-filosofo, la cui unica occupazione nella vita era l’acuta e disperata ricerca intellettiva di un senso intelligibile di Dio?



Certo, la sua occupazione di precettore non gli portava granché guadagno, lui la considerava solo un ripiego, una fastidiosa necessità. Il pensiero, anzi, la Poesia era la sua ragione di vita. E, certo, l’amore. Quando poi morirà la sua amatissima Suzette, l’aveva chiamata Diotima nel suo romanzo filosofico, si occuperà strenuamente della morte.

Siamo in un’altro secolo, si obietterebbe; il secolo in cui gli amici cari, i compagni di studio si chiamavano Hegel, Schiller, Novalis, i professori Fichte e Goethe. 

Persone che hanno radicato il pensiero occidentale, la filosofia, la poesia.



Vale la pena allora fermarsi un poco, prendere in mano questo agile libretto; in realtà la sua lettura ci porta dentro un percorso aspro e acuto, piuttosto disagevole per chi come noi non è più avvezzo a pensare: ad usare cioè il proprio Pensiero come un condottiero in battaglia contro i marosi del Nonsenso. 

Ci vuole un uomo che sappia che il “Verbo” (cioè la parola pensata e agita, la parola infine pronunciata), è creativo, è attivo; ci vuole un cacciatore di idee, capace di tendere un paziente agguato per cogliere sia le sfumature che le trappole, gli abbagli e le illuminazioni di cui sono caduti preda i nostri Padri Pensatori.

Fu Romano Guardini a spalancarci il mondo della poetica hölderliniana, tacciato spesso di essersi spinto troppo in direzione cattolica; ora può essere chiarificante questo saggio che prende spunto dalle ultime opere, setacciando in esse gli spunti resistenti, oserei dire le essenziali idee, rimaste come ossa nello scheletro del Poeta. 

Quelle intuizioni geniali che lo hanno accompagnato nella sofferenza e nella solitudine; talmente sensibile era diventato da usare la pelle di un altro quasi fosse un alibi, nascondendosi in numerosi Alter Ego per sopportare di vivere.

Eppure è il modo in cui Hölderlin affronta l’inaudito dolore che diventa oggetto di attenzione di Francesco Roat e della sua indagine: come affronta un poeta il senso del male? La follia è forse una necessità? O un palliativo? Una fuga?

Ma soprattutto: può sopravviverne la scrittura? Può consolare? 

Questo è il momento storico in cui la poesia viene sempre più ridotta a “terapia lenitiva” a “autoconsolazione”; le poesie, così diffuse anche in web, quelle che raccolgono più “like” sono sempre più egoreferenti e, oserei dire, tristi.

La poesia sta rischiando di diventare una pacca sulla spalla, un sospiro amoroso tuttalpiù…, bene, allora vi consiglio caldamente questo saggio.

“Il cantore folle” di Francesco Roat: il cammino accidentato di un poeta, il destino folle di un uomo che non ha mai smesso di usare la Poesia.

 


Francesco Roat, “Il cantore folle. Hölderlin e le Poesie della torre”, Moretti & Vitali, 2016.