NEW YORK — Che cosa è rimasto a “Ground Zero”, nella punta meridionale di Manhattan, che richieda ancora un’attenzione internazionale, dopo quindici anni di cerimonie e di cerimoniosità? Soprattutto, forse, il silenzio; e non solo nella ricorrenza fatidica dell’undici settembre, ma anche (va sottolineato) in ogni giorno in cui capiti di visitare quel luogo. Il silenzio come senso di quella dimensione altra che i luoghi della grande morte sempre rivelano, non è un fenomeno che si possa dare per scontato: mantenere il silenzio richiede un alto senso di dignità comunitaria, insomma, un senso di civiltà; e su questo punto gli Stati Uniti ne danno prova (non così, troppo spesso, in Italia: basti pensare alla gazzarra pseudo-politica che a ogni agosto contamina la commemorazione della strage alla stazione di Bologna).



Con ciò non si vuol certo suggerire che esistano paesi civili e paesi incivili: l’esperienza della vita rivela che ogni paese ha i suoi punti forti e quelli deboli, in fatto di civiltà. In quella mattinata dell’undici settembre appena trascorsa fra le ex-rovine delle Torri Gemelle, da un gruppetto di forse ex-soldati si è sentito a un certo punto risuonare l’urlo “Usa! Usa!”. Scritto così, non fa impressione; ma chi nel corso degli anni l’ha ascoltato nella sua sonorità effettiva: “Yu Es Ei! Yu Es Ei!”, non può dimenticarlo. E’ il grido selvaggio che ha accompagnato tante invasioni, quando dopo  avere urlato “Yu Es Ei! Yu Es Ei!”, nei primi anni dopo l’undici settembre, si gridava: “Asfalteremo l’Iraq e ne faremo un’area di parcheggio!”; e purtroppo questa minaccia è stata in larga misura mantenuta.



Del resto, anche il silenzio può essere il mezzo in cui trasmettere messaggi sinistri. Come quello, raggelante, espresso dalla scritta sulla maglietta nera indossata da uno dei presenti alla cerimonia di domenica, ritto in silenzio come tutti noialtri: “Attenzione, state indietro di 100 metri o vi spariamo”; e la frase era seguita dalla sua trascrizione stampata in arabo. Costui non aveva bisogno di dire una sola parola per presentarsi orgogliosamente, con questo suo souvenir, come uno dei conquistatori; e in effetti ci faceva capire senza tante dissertazioni che cosa significa vivere sotto un esercito di occupazione, l’esercito scaturito dalle macerie delle Torri Gemelle. Dopo l’undici settembre di un quindicennio or sono è scattata negli Stati Uniti un’abile strategia del doppio binario: il complesso militare-industriale ha scatenato la vendetta, distruggendo un paio di nazioni; mentre l’apparato governativo- propagandistico mascherava questa vendetta sotto una retorica dell’inclusività, del multiculturalismo, dell’anti-discriminazione eccetera eccetera. 



E così, fra i due partiti in lotta elettorale, il più belligerante è quello che affila le sue armi sotto il mantello delle parole più “corrette”. Non è detto che, come alcuni dicono, l’impero nordamericano si rivelerà il più breve nella storia degli imperi moderni; ma quello che è chiaro è che si tratta dell’impero più raffinatamente ipocrita, che come tale ci avvolge in una rete di complicità.

Per sfuggire all’atmosfera di confusione etica e di stanchezza dopo anni di reiterata violenza che emanava da “Ground Zero” in quel giorno, bisognava rifugiarsi ai suoi margini: come nel giardinetto discretamente annidato fra gli angoli del quartiere di Wall Street — il giardinetto donato dalla regina Elisabetta in memoria di quelli, tra i caduti nell’attacco alle Torri Gemelle, che erano originari del Regno Unito e del suo Commonwealth — dove abbiamo ascoltato il suono, insieme rude ed elegiaco, delle cornamuse; o nel cimitero-giardino di Trinity Church scampata al disastro, con le sue semplicissime lapidi che risalgono ai tempi in cui gli Stati Uniti stavano nascendo come tali. E almeno con il suo passato settecentesco, questo paese ha fatto la sua pace.