Che cosa c’è di meglio, per iniziare un romanzo, di una nave che salpa e di una donna che scompagina le carte, elemento di disturbo, portatrice di inquietudine, turbamento e sconcerto? Così è nell’ultimo dei romanzi di Georges Simenon riproposti, con cadenza regolare, da Adelphi, Il passeggero del Polarlys (trad. di Annamaria Carenzi Vailly), primo romanzo simenoniano ad essere apparso in volume in libreria, nel lontano 1932, dopo un debutto a puntate sul quotidiano L’Oeuvre.
Il Polarlys, una cosiddetta “nave mista”, da trasporto, ma che può accogliere fino a un centinaio di passeggeri, sta partendo dal porto di Amburgo per la Novergia: il suo è un viaggio di routine, che prevede all’andata il trasporto di macchinari, frutta e carne salata, e al ritorno di barili di merluzzo, pelli d’orso e olio di foca provenienti dal grande Nord. Petersen, il capitano, è tutt’altro che un novellino: imbarcato per la prima volta a tredici anni, conosce benissimo quella rotta, ha assistito a risse, marinai con precedenti poco limpidi gli hanno confidato i delitti di cui si sono macchiati; e qualche volta, addirittura, la polizia ha effettuato anche degli arresti a bordo della sua nave. Ma si era trattato prima di un truffatore, poi, se così si può dire, del banale autore di un crime passionnel: tutti avvenimenti che avevano lasciato il capitano quasi indifferente perché, come dice con la sua penna tranchante Simenon, “da buon protestante, sapeva che i buoni e i cattivi istinti si contendono l’animo umano”.
Eppure, questa volta le cose sono differenti: tira un’aria diversa, e Petersen lo capisce subito; è esattamente quella strana malattia che qualche volta si accanisce contro le navi, “le cui cause appartengono al vasto, sconosciuto universo che chiamano Caso” e che i marinai, superstiziosi come sono, chiamano senza mezzi termini con il nome di “malocchio”. I suoi primi sintomi non sfuggono all’occhio esercitato del marinaio di lungo corso: una sartia si spezza all’improvviso, senza motivo; il mozzo si taglia un dito sbucciando le patate, e la ferita si infetta, facendolo urlare tutta la notte per il dolore; oppure, per una manovra sbagliata, si finisce per cozzare contro un’altra barca. Piccole cose, ma che lasciano intravedere una presenza che diventa poi sempre più evidente: il Malocchio, appunto.
Per giunta, sul Polarlys si sono imbarcati questa volta un marinaio che ha tutta l’aria di un vagabondo, ma di un vagabondo non umile e pago di aver trovato un impiego, bensì strafottente, tracotante e ombroso. E, sopratutto, c’è lei, Katia: biondissima, con i capelli fini e chiari da neonato, le lunghe ciglia a velarle gli occhi neri, e una mise più adatta a un translatlantico di lusso che non un nave da trasporto, visto che la ragazza si imbarca dopo una notte brava, ancora fasciata in un abito da sera di seta nera che lascia indovinare tutto, ed è sempre intenta a fumare sigarette di lusso con un bocchino spropositato che ce la fa immaginare come una femme fatale alla Marlene Dietrich.
Katia è circondata da un “alone di voluttà”, un che di misterioso e inafferrabile, solo apparentemente inconciliabile con la sua aria a volte infantile, perché “sembrava proprio una bambina. Ma una bambina perversa! O per l’esattezza, perversa e innocente insieme! (…) Mai che abbassasse lo sguardo, quando la si fissava. Mai che dai sui occhi affiorasse un briciolo di provocazione. Eppure…”.
E su questa nave, per giunta, il terzo ufficiale è un giovincello di diciannove anni appena uscito dall’Accademia, e uno dei passeggeri, Ericksen, dopo essersi registrato, sparisce nel nulla. Ma i guai sono appena cominciati: presto sul Polarlys arriva anche il sovrintendente di polizia Von Sternberg, impegnato a indagare su un delitto avvenuto a Parigi, a Montparnasse, quando, durante un festino di giovani dediti ad alcool e droga, una ragazza è stata uccisa: il colpevole potrebbe essere stato proprio Ericksen, il passeggero fantasma. Poco dopo, però, Von Sternberg viene ucciso nella sua cabina: appare ragionevole pensare che il colpevole sia proprio Ericksen, e che poi l’assassino si sia gettato in mare. O forse no.
Il viaggio verso il buio del grande Nord continua, tra furti nelle cabine, misteri e tempi morti, mentre sulla nave regna un’atmosfera vischiosa e stagnante, una di quelle atmosfere tese, fatte di nulla, che Simenon sa tratteggiare così bene, con poche frasi stringate: “Capitava spesso che si facesse musica, nel fumoir, mentre la massa nera del Polarlys avanzava a gran colpi d’elica tra i marosi e il pilota, lassù, barcollava nella tempesta. Quel contrasto eccitava i turisti. Udire alla fine di un ritornello jazz il verso roco di un gabbiano mandava le donne in visibilio. Ma quella sera non c’era alcun contrasto. L’esterno non esisteva. Nessuno ci pensava (…). Una donna giovane, bella e sensuale rideva fragorosamente rovesciando la testa all’indietro, sempre più brilla, facendo di tutto per trascinarsi dietro gli altri (…) Evjen aveva cominciato a seguire ogni movimento della tedesca con uno sguardo fin troppo eloquente. Schuttringer sonnecchiava, ancora un paio di bicchieri e probabilmente si sarebbe messo a russare. L’unica a tenere in piedi la serata, ad avere ancora un po’ di energia, era Katia. E se ne rendeva conto pure lei (…). La sua voce era così supplichevole che faceva quasi pena”.
Alla fine, tutti i misteri saranno svelati e la realtà si dimostrerà ben diversa da quanto potevamo sospettare inizialmente, benché, in verità, il lettore esperto di gialli abbia forse potuto già intuire la soluzione del caso: ma più che per la risoluzione del “giallo” in sé, il romanzo vale, come si diceva un tempo, come “studio di caratteri”: nello specifico, quello di un giovane, idealista e che scoprirà la passione, iniziando un percorso di crescita, e quello di Katia, la ragazza che, come tante creature letterarie simenoniane, sotto le parvenze di donna vissuta cela più di una debolezza e fragilità.