Tutti hanno voluto dire la loro sul suicidio di Tiziana Cantone, la trentunenne che si è uccisa dopo che un video che la riprendeva durante un atto sessuale, inizialmente diffuso da lei stessa, era finito sui siti pornografici e le aveva dato una celebrità insopportabile. In contemporanea, è venuto alla luce l’episodio — in realtà diverso — di Rimini, dove una diciassettenne è stata stuprata mentre le amiche riprendevano la scena per poi diffondere le immagini tramite Whatsapp. Qualcuno ha rievocato il caso del 2013 di Carolina Picchio, una quattordicenne anche lei suicida dopo che un video che la riprendeva in atteggiamenti intimi a una festa era stato ampiamente diffuso via Internet. Il padre di Carolina è intervenuto sul Corriere della Sera del 16 settembre, con considerazioni che in gran parte condivido. 



È stato scritto tutto e il contrario di tutto, e sembra non ci sia nulla da aggiungere se non la preghiera e l’umana pietà. Vorrei però proporre quattro considerazioni, che mi sembrano un po’ trascurate nel dibattito in corso.

La prima riguarda la droga, che è un filo conduttore comune di questi episodi. Andando a fondo delle cronache, si scopre che la droga c’entra sempre. Ricordiamoci di aggiungere anche questo non solo agli argomenti contro la legalizzazione della droga — legalizzandola, sono convinto che nelle discoteche e dintorni ne circolerebbe ancora di più, e rimando alle argomentazioni dell’ex sottosegretario Alfredo Mantovano nel libro di cui sono co-autore Libertà dalla droga (Sugarco) — ma anche alle campagne educative nelle scuole (ancora troppo poche) contro la droga in genere. Imbottendosi di droga non c’è solo il rischio di stare male o di finire fuori strada con l’automobile. C’è anche quello di scatenarsi in atti sessuali più o meno casuali e consapevoli, che poi di questi tempi facilmente finiscono su Internet, con conseguenze imprevedibili che purtroppo arrivano fino al suicidio.

La seconda considerazione è che gli episodi in questione sono molto diversi tra loro. Tiziana Cantone si era fatta riprendere volontariamente e aveva diffuso lei stessa le immagini via Internet, anche se poi se n’era pentita. Nel caso di Rimini una minorenne è stata violentata e ripresa durante la violenza, con un video diffuso in rete. Si tratta di una pratica purtroppo diffusa, e in altri Paesi la repressione è severissima. In molti Stati degli Stati Uniti, le cosiddette amiche della ragazzina di Rimini, anche se minorenni, sarebbero sottratte ai tribunali dei minori, processate come se fossero adulte e condannate a decine di anni di carcere, cioè a passare una buona parte della loro vita in galera. Conosco tutti i vantaggi della nostra cultura giuridica che conserva un’origine cattolica — diversa da quella anglosassone d’impronta protestante —, e tra l’altro esclude che minorenni siano processati e condannati senza tenere conto della loro età. Ma esistono anche gli eccessi del buonismo e del permissivismo. 

Senza esagerazioni e isterismi: non serve a nulla che qualche politico vada sopra le righe e invochi la pena di morte per gli stupratori (magari, specie se immigrati), suscitando reazioni contrarie. Tuttavia, è necessario che chi si rende colpevole di reati particolarmente odiosi sappia che la repressione penale sarà adeguata e colpirà, nelle forme opportune ma con serietà, anche i minorenni. Questo chiede, con pacatezza, il padre della povera Carolina Picchio. Non mi sento di dargli torto. 

Terza considerazione: chi dice che “è colpa di Internet” cade in quello che la sociologia chiama “determinismo tecnologico”, l’errore secondo cui la tecnologia determina di per sé effetti sociali automatici, inevitabili e irreversibili. Le stesse accuse rivolte a Internet furono rivolte al cinema, alla radio, alla televisione, e per la verità già alla stampa agli albori dell’era moderna. Certamente tutti questi strumenti amplificano la circolazione delle notizie. Ma gli strumenti sono in realtà neutrali. Posso usare Facebook o Whatsapp per l’evangelizzazione o per diffondere video pornografici. San Giovanni Paolo II aveva già detto tutto quello che c’è da dire nel suo documento su Internet per la 36esima Giornata mondiale delle comunicazioni sociali, un testo davvero profetico se si considera che è stato scritto nel 2002. Internet, scriveva il Pontefice, “può offrire magnifiche opportunità di evangelizzazione se utilizzato con competenza e con una chiara consapevolezza della sua forza e delle sue debolezze”. Internet spesso “rende possibile un primo incontro con il messaggio cristiano, in particolare ai giovani, che sempre più ricorrono al cyberspazio quale finestra sul mondo”. Ma ci sono anche, affermava San Giovanni Paolo II, gravi rischi: “Internet ridefinisce in modo radicale il rapporto psicologico di una persona con lo spazio e con il tempo. Attrae l’attenzione su ciò che è tangibile, utile, subito disponibile. Può venire a mancare lo stimolo a un pensiero e a una riflessione più profondi, mentre gli esseri umani hanno bisogno vitale di tempo e di tranquillità interiore per ponderare ed esaminare la vita e i suoi misteri e per acquisire gradualmente un maturo dominio di sé e del mondo che li circonda. La comprensione e la saggezza sono il frutto di uno sguardo contemplativo sul mondo e non derivano dalla mera acquisizione di fatti, seppur interessanti. Sono il risultato di un’intuizione che penetra il significato più profondo delle cose in relazione fra loro e con tutta la realtà. Inoltre, quale forum in cui praticamente tutto è accettabile e quasi nulla è duraturo, Internet favorisce un modo di pensare relativistico”.

Ho voluto citare il brano, non breve, per intero, perché introduce la mia quarta osservazione. Ogni volta che accadono episodi di questo genere s’invocano più controllo sui social network, regole che impongano alle multinazionali che li controllano di vigilare e quando sbagliano di pagare i danni, più polizia postale. Tutto questo può avere un senso, specie per i casi criminali di chi diffonde in rete immagini di stupri. Ma dobbiamo anche essere consapevoli del fatto che controllare Internet è difficilissimo. 

Migliaia di super-specialisti, negli Stati Uniti e altrove, lavorano a tempo pieno per impedire all’Isis di reclutare terroristi in rete, ma il reclutamento continua. Esiste un “Internet nero” che non passa per i normali canali ed è ampiamente ritenuto incontrollabile. Soprattutto, nessuno può fermare le Tiziane Cantone che postano i loro video sexy su Internet e si fanno del male da sole. 

Non che la vigilanza sia inutile. Ma da sola non può risolvere il problema. Come diceva San Giovanni Paolo II, il problema è antropologico ed educativo: imparare a dominare se stessi, il rapporto con lo spazio e il tempo e i mezzi attraverso i quali ci esprimiamo, rifiutando la menzogna secondo cui una volta che siamo su Internet “tutto è accettabile”. Nelle cronache di questi giorni mi colpisce un’assenza. Dov’era la Chiesa in tutto questo? Le vittime si sono rivolte a tutti: ai giornali, agli avvocati, alle conduttrici di popolari programmi televisivi. Ma non risulta che — prima della disperazione e del suicidio — abbiano cercato conforto nella Chiesa. E questo in Italia, non — per esempio — in Francia, dove la totale assenza di contatti con la Chiesa è un fenomeno tre volte più diffuso rispetto a noi. 

È uscita da poco una ricerca importante del sociologo torinese Franco Garelli, Piccoli atei crescono (il Mulino). Ne emerge che i giovani italiani hanno ancora qualche interesse di tipo religioso ma in gran parte diffidano della Chiesa cattolica. La scoperta più interessante di Garelli è che questa diffidenza non deriva da esperienze personali. Intervistati, questi giovani riferiscono in buona parte che hanno frequentato la parrocchia o l’oratorio da ragazzini e che l’esperienza è stata positiva. Nessuno degli intervistati si è imbattuto in un prete pedofilo o in un parroco moralista e senza misericordia. Molti però reinterpretano a posteriori la loro esperienza positiva come un’eccezione, perché i media li hanno convinti che la maggior parte delle parrocchie sono luoghi poco accoglienti e pericolosi, e per definizione i media ne sanno di più. Ci sarebbe molto da dire sulle ragioni per cui i grandi media hanno diffuso a piene mani intolleranza verso il cattolicesimo. Ma ora vediamo le conseguenze. Ai giovani, e ai meno giovani, è stato tolto — maliziosamente — l’ancoraggio nel reale che la Chiesa offriva ancora ai loro genitori e certamente ai loro nonni, né ce ne sono in giro molti altri. Se mancano questi ancoraggi nel reale, resta solo la cosiddetta realtà virtuale, che per molti diventa l’unica realtà. Gli ultimi episodi dimostrano che si tratta di una “realtà” che può diventare pericolosa: per colpa non della tecnologia in sé, ma del suo uso distorto. Come direbbe Papa Francesco, questi giovani e giovani adulti erano forse preoccupati di non farsi rubare il cellulare. Ma si sono fatti rubare la speranza. E, quando viene meno la speranza, restano solo la violenza e la morte.