Ci sono poeti capaci di attraversare dal di dentro i drammi del proprio tempo, finendo per portare nella propria lingua i segni della catastrofe: sconvolgimenti formali, fratture, vuoti, silenzi. Altri che, con la stessa grazia e fermezza di uno scultore, lavorano sui mille particolari di un edificio dalle fondamenta saldamente ancorate a terra: togliendo e aggiungendo, cesellando, mirando alla massima perfezione formale. A questa seconda specie appartiene Matteo Munaretto (Canegrate, 1977), che con il suo Il cielo è dei leggeri per Interlinea edizioni amplia ed approfondisce tematiche e motivi già anticipati nel precedente Arde nel Verde (Interlinea, Novara 2010, con prefazione di F. Bandini). 



Il titolo della raccolta, variazione del passo evangelico di Matteo 11,12 (“Dai giorni di Giovanni il Battista fino ad ora, il regno dei cieli soffre violenza e i violenti se ne impadroniscono”) delinea con precisione la tensione morale che anima la poesia di Munaretto, tutta protesa verso l’alto e pronta a leggere nel quotidiano e nella natura i segni di un “oltre” a cui prestare ascolto: “Se trillano/ le foglioline fresche sulle siepi/ c’è chi ne ascolti il giubilo?/ L’arco di nubi chiare/ non sta lassù per dare/ a menti ardimentose/qualche minuto arioso di trionfo?/ C’è chi lo voglia?” (p. 70).



La domanda percorre incessantemente le liriche della raccolta, mettendo l’uomo contemporaneo di fronte a un interrogativo senza possibili vie di fuga: esiste ancora un cuore vivo, disposto a ricercare il bello, il vero, il bene? Esiste un cuore capace, in mezzo a tanta anestesia generalizzata, di amare ancora la realtà riconoscendone un soffio di misteriosa positività pur di fronte a tanta negazione, mistificazione, lamento? Munaretto ama, osa, spera, lascia che un imprevisto possa sovvertire i “polverosi calcoli” concedendo all’uomo che cerca e domanda il dono illuminante della grazia, paragonata al sorriso disarmato di un neonato attraverso una finestra toccata dal sole: “La grazia è sì impetuosa,/scende da un fuoco divorante ma/ leggera/ leggera precipita col passo,/ se potesse, inavvertibile/ traverso una finestra spalancata/ una domenica mattina di sole appena s’apre/ l’imprevisto/ improvviso sorriso di un lattante” (p. 93).



La leggerezza di cui ci parla Munaretto non ha a che fare, almeno ad un primo esame, con la celebre leggerezza del Calvino delle Lezioni americane, in cui lo scrittore afferma: “Forse stavo scoprendo solo allora la pesantezza, l’inerzia, l’opacità del mondo: qualità che s’attaccano subito alla scrittura, se non si trova il modo di sfuggirle”. La leggerezza a cui aspira Munaretto sembra forse possedere, rispetto all’opposizione calviniana leggerezza-peso, una qualità che le permette di osare un salto ulteriore, di ardire, di volare alto senza sfuggire “l’opacità del mondo” ma cercando in profondità una limpida sorgente che possa rischiarare le tenebre: “bramavi, provavi a stringere/ a penetrare/ fino al puro pulsare, allo zampillo/ in cui ogni istante l’essere è infuso al mondo,/ al punto in cui/ la notte/ non è più notte, è un suono di coralli…” (p. 133). 

Munaretto, sulla scorta del Luzi di Per il battesimo dei nostri frammenti che chiedeva alla parola di “volare alto” rimanendo fedele al proprio significato (“Vola alta, parola, cresci in profondità,/ tocca nadir e zenith della tua significazione”), è alla ricerca di una lingua “chiara” e di una sintassi “fedele alla realtà” (p. 39). In questa traiettoria, la lingua poetica deve poter ospitare “un po’ di celeste brillare” (p. 40) e il pensiero ritorna finalmente a “illimpidirsi” per “tornare a vedere/ la luce delle betulle e della neve” (p. 40). 

La leggerezza ricercata da Munaretto, contrapposta alla “pesantezza” di alcuni poeti contemporanei che “non hanno/ l’ardire l’onestà/ di far spiccare ai loro versi un salto” (p. 21) consiste in una sorta di recupero del proprio “peso”, del proprio nutrimento essenziale ed umano. Leggerezza come slancio verso l’alto in una tensione morale e conoscitiva (“che sa il sapere che non ha/ la freccia puntata verso l’alto?”, p. 21) riflessa anche nel tessuto linguistico (“La punta della mente tutta tesa/ umilissimamente dentro il vero/ che luce anche nel piccolo fonema”, p. 22). Si tratta di una vera e propria “leggerezza per scalare il vento”, come quella delle biciclette eleganti e robuste di Silvano Comerio, biciclettaio-artigiano che nell’omonima poesia diventa il simbolo di un mondo ormai scomparso: “Non amavi come usa/ i pezzi fatti in serie,/ per non durare – l’opera/ senza amore che vale, può mai stare/ il bello senza il bene?” (p. 27). Oppure la leggerezza del campione brasiliano Pelé, mirabilmente ritratto in Torna Pelé come magico emblema di un cuore umano ancora capace di sognare l’impossibile: “Pelé poesia della mia vita,/ che danzi sopra l’erba/ scivoli tra gli avversari/ non hai nemici,/ s’arrendono a te e sono felici/ i cuori che sognano/ semplicità e bellezza” (p. 41).

In questo percorso alla ricerca della “leggerezza” l’autore è ben consapevole che la poesia, come anche le altre attività dello spirito umano, non può prescindere dalla tradizione, storia viva che perdura di padre in figlio: “Forse è questo che rifiutano,/ la fatica di durare dentro un solco/ scavato duramente,/ amato con tenacia, proseguire/ l’opera dei padri” (p. 35). La figura del “maestro” ritorna numerose volte nel libro, come ad esempio nell’acuta ed originale Un po’ di gesso sulle dita in cui assistiamo ad una vera e propria lezione scolastica in medias res (l’autore è infatti professore di italiano e latino in un liceo pavese). Dopo aver espresso la propria predilezione per i tradizionali supporti scolastici (il gessetto alla lavagna contrapposto alle “dive arti virtuali”) Munaretto mostra attraverso la figura di Enea come anche la tradizione possa tornare, proprio attraverso la scuola, ad essere un nucleo pulsante di vita: “La voce anche s’inchina a volte./ E ripete e ripronuncia/ da sola/ senza giochi di prestigio/ che Enea fu pio,/ portò il padre sulle spalle,/ il figlio per mano/ fuori dal crollo e dalle fiamme;/ fu fedele/ a qualcosa che appena intuì/ e intuiva la grandezza e il suo mistero./ Enea fu vero” (p. 24). 

La leggerezza inseguita da Munaretto aspira ad una purezza di cuore originaria, ad un primigenio stupore (“solo/lo stupore afferra qualcosa” ci ricorda l’autore citando san Gregorio Nisseno). In La prima nevicata possiamo infatti osservare una vera e propria trasfigurazione in cui la neve candida viene a trasformare in bianca visione una scena di domestica intimità familiare: “E tutto è bianco,/ i fiocchi che continuano a cadere/ calmi come/ i grani del Rosario – e quella luce/ sull’acqua del Giordano,/ l’acqua che noi siamo” (p. 87). Così, attraverso uno stupore capace di generare conoscenza, la poesia di Munaretto si sofferma ad indagare con minuzia il mondo naturale, i suoi minimi ed impercettibili segni che diventano grandiosi: “l’uccello di passo il piccione/ tra le tegole/ l’alba in cui giubilano/ tutti e tre” (p. 47), “come ciuffi, nuvolette,/ linee sottili soffi -/ i larici spogli/bellissimi” (p. 48), “la salmodia umilissima/ dei boschi e delle pietre fieramente/ materne” (p. 64), “il verde che innamora, i piccoli mirtilli,/ di là dai pini/ il blu allo stato puro” (p. 75), il ragnetto che passeggia sulle foglie del basilico ricordando all’uomo il “miracolo d’essere vivi/ vicino ai gerani, le margherite” (p. 97). Ed è questa apertura ontologica, portatrice di uno sguardo redento sulla storia del mondo e degli uomini (“il fatto è che il bene è apparso/ e il bene c’è” si afferma in Una mattina di giugno uscendo di casa) il primo segnale di una umana rinascita, in attesa del riscatto finale (p. 94):

 

E il mondo nasce ancora
in te Michele che guardi
i cocoriti
              azzurri e gialli

nasce l’erba nei campi nasce il verde
nasce adesso e questa finissima
pioggia di giugno è la prima pioggia
mai vista e ride

e chi lo vide
cosa buona e bella
ancora un poco così lo rivede
ora in te piccolo ignaro segno vivente
della vittoria finale

quando dai quattro angoli gli angeli suoneranno
e la terra sarà degli umili e dei miti.