Le fiabe sollecitano la fantasia e quindi sono un ottimo stimolo per la vita ad ogni età e non certo solo per i bambini; non tutte sono note ai piccoli, presi da quelle moderne ricche di effetti speciali. È il caso delle Avventure di Pinocchio, pubblicata su il “Giornale per i bambini”, poi riscritta e completata da Collodi perché i giovani lettori non avevano gradito la fine ingloriosa del burattino impiccato a un albero. È una favola moderna — ha solo centotrentacinque anni — ma ricca di suggestioni anche per la nostra epoca. Alcuni hanno parlato di connivenza con gli schemi della società borghese, altri al contrario di chiari messaggi di tipo sociologico, qualcuno ritiene che sotto il velame della fiaba (cfr. Giacomo Biffi, Contro maestro Ciliegia, Jaca Book, 1977) traspaia un messaggio universale, una antropologia.
La lettura moralistica che gli è stata appiccicata è poca cosa, perché la storia mostra ben altro. L’attacco rivela il gusto dissacrante dell’autore: non c’è un re ma un pezzo di legno manipolato da un maestro Ciliegia che poi sparisce del tutto dalla storia, un uomo dal pensiero debole, per lui la realtà si identifica con ciò che si vede e si tocca, l’imprevisto non è possibile. Entra in scena un altro falegname, un artigiano che ha una velleità non consueta, vuole fare dal pezzo di legno un burattino, vuole, si potrebbe dire, essere padre.
Subito cominciano i guai, come capita ad ogni padre: gli occhi lo guardano fisso, la bocca lo canzona, gli arriva un calcio sulla punta del naso. Geppetto si rammarica, ma non pensa proprio di disfarsi della sua opera, anzi prende per mano il burattino per insegnargli a mettere un piede dietro l’altro. E appena può Pinocchio scappa da casa: il primo gesto che un ragazzo compie, per manifestare la propria autonomia, è quello di allontanarsi dal padre. Quando Pinocchio incontra il grillo parlante si apre una alternativa: seguire la voce della coscienza — in questo caso è fragilissima e facilmente soffocata — o scegliere la trasgressione.
Sappiamo cosa succede; un mondo che rifiuta la paternità scivola verso il nichilismo, come è il nostro presente. Geppetto invece perdona, non vuole rinunciare alla sua vocazione, rifà i piedi a Pinocchio, lo bacia, gli dà mille carezze, gli fa un vestito e le scarpe, vende la sua casacca per comperare l’abbecedario. Una presenza che vuole avviare il burattino su una strada che dovrebbe portare a grandi mete; la strada della scuola è quella dell’umanizzazione, osserva Giacomo Biffi. Ancora un’alternativa per il figlio: seguire i burattini o andare a scuola. Pinocchio è perplesso ma poi decide; per la strada verso la ragione c’è sempre tempo, meglio seguire l’istinto. Un vecchio e commosso Mangiafuoco gli regala delle monete per poter continuare la strada. 



Siamo all’incontro fatale: il burattino è insidiato dal male, dalla furbizia, dalla malvagità e, pur nella prospettiva buona (ma velleitaria) di arricchire Geppetto, sceglie ancora la strada  sbagliata. Verso il campo dei miracoli — la notte è buia e tempestosa, come tutte nel racconto — ritorna il grillo parlante, la sua ombra. Nonostante le sue argomentazioni ragionevoli, Pinocchio preferisce andare avanti e finisce nelle grinfie degli assassini.
Chi resuscita il burattino? La bella bambina dai capelli turchini. È una donna che salva la vita. La necessità di una madre? Un mondo senza famiglia è un mondo disumano? Lei è bella — la bellezza è motore della vita —, è una bambina, una donna ancora vergine e quindi capace di un amore disinteressato, con i capelli color del cielo — un’allusione all’infinito, al desiderio più profondo degli uomini. Il ritrovamento della tomba della fatina, un evento favolistico, segna  un momento di catarsi, di verità per il burattino, ma la strada del cambiamento è lunga. È ancora una figura femminile che riconosce a Pinocchio: tu hai il cuore buono; ma, quando arriva a scuola purtroppo non è fortunato, è deriso dai compagni e non poteva essere altrimenti. Il tema così attuale delle diversità?
A un passo dalla meta desiderata, il burattino, quasi bambino, si lascia tentare di nuovo dal male e dall’ingiustizia, è la catabasi cioè la discesa negli inferi. Il paese dei balocchi, Lucignolo, la trasformazione in animale sono il passaggio a una situazione ferina, il punto più basso dell’avventura. Il capitolo dedicato al circo di pagliacci e di saltatori di corda è una grande metafora del mondo contemporaneo: ballerine, bestie, domatori, la folla plaudente, e poi la star, il famoso ciuchino pinocchio, la stella della danza. Siamo al fondo della prostrazione: il rischio di diventare pelle di tamburo, di diventare una cosa.
Ma la vicenda si muta diremmo miracolosamente: perché il ciuchino ritorna burattino? Perché è intervenuta di nuovo la Fata. Pinocchio si butta in mare e il Pescecane lo inghiotte. E comincia l’anabasi che avviene attraverso l’acqua. Come per tanti eroi di storie passate, il mare è il luogo del viaggio e, anche attraverso le tempeste, il luogo della salvezza. Il mostro marino è in verità un pesce accogliente; il grido di Pinocchio gli fa ritrovare il padre, sempre cercato, nonostante tutto.
Nella nuova condizione di figlio, Pinocchio riconquista se stesso, porta il padre sulle spalle, impara a leggere, a studiare. Una metanoia completa, fino a lavorare anche la sera e a diventare generoso con la Lumaca per  curare la Fata ammalata. Possiamo cercare un significato all’ultima pagina? Tutto è trasformato: il nuovo guarda il vecchio con una bonomia ironica, il nuovo e il vecchio rappresentano due vite distinte ma simili, purché si abbia la consapevolezza che la strada della figliolanza è sassosa ma indispensabile.

Leggi anche

CHIESA/ Cardinali (elettori) e mondo, così l’ultimo concistoro cambia lo scenarioAL TEATRO OSCAR/ “Due uomini” di Doninelli: Giovanni XXIII e Paolo VI, la speranza vince sulle rovine