Mercoledì scorso il sussidiario ha ricordato, a trent’anni dall’evento, l’assoluzione con formula piena e la scarcerazione di Enzo Tortora, avvenute il 15 settembre 1986, dopo che il popolare giornalista e conduttore televisivo aveva dovuto subire un’incredibile persecuzione giornalistico-giudiziaria, con tanto di carcere, perché accusato di traffico di droga. Molti organi di stampa e reti televisive hanno ricordato la figura di Tortora e il suo calvario, conclusosi tragicamente a soli due anni dal riconoscimento della sua innocenza, con la sua morte dovuta ad un cancro (anzi, due) sicuramente causato da quella infame campagna di stampa della quale mai, almeno ufficialmente, i suoi artefici hanno ritenuto di doversi pentire. Trasmissioni come gli speciali andati in onda su Rai News e su “La storia siamo noi”, o come “Porta a porta” su Rai Uno e “Blob” su Rai Tre, possono costituire, in certo senso, un atto di riparazione, del mondo del giornalismo e dell’informazione, per la montagna di fango che, da quel 17 giugno 1983 (giorno del suo ammanettamento e del suo arresto dinnanzi alle telecamere della tv di Stato), fu gettata addosso ad un uomo innocente uso a battersi solo per la verità.
Tengo a ricordare, in proposito, che tra i progetti che aveva nel cassetto quando lo assalì la malattia c’era quello di scrivere in un libro la verità sulla violenza di cui era stato vittima il commissario di polizia Luigi Calabresi, diffamato per mesi sui principali organi di stampa nazionale con l’accusa di essere responsabile della morte dell’anarchico Giuseppe Pinelli, e infine assassinato da Lotta Continua il 17 maggio 1972.
Qualche tempo prima di cadere sotto le pallottole di Ovidio Bompressi, Calabresi aveva dovuto querelare per diffamazione (lo aveva fatto in proprio, perché il ministero dell’Interno lo aveva lasciato solo) il giornale Lotta Continua. Si era rivolto all’avvocato Michele Lener. Calabresi era stato praticamente abbandonato da tutti, ma ci fu una persona che non lo lasciò mai solo. L’unico giornalista che gli fu accanto per tutta la durata del processo, sfidando l’ostilità e, in un caso, addirittura la violenza degli estremisti, che lo aggredirono e lo presero a botte, fu Enzo Tortora.
In quegli anni il famoso e popolare presentatore televisivo era “in castigo”. Era stato emarginato dalla Rai dopo avere espresso critiche contro la politicizzazione dei programmi, ma aveva trovato subito lavoro come inviato speciale dei quotidiani Il Resto del Carlino di Bologna e La Nazione di Firenze. In tale veste, era stato incaricato di seguire le vicende legate alla persecuzione della sinistra contro il commissario Calabresi. Tortora si era subito reso conto che Calabresi — un cristiano fervente e praticante — era l’uomo più alieno di questo mondo da ogni forma di violenza, per cui era al tempo stesso vittima degli eversori pseudo-rivoluzionari di sinistra e dello Stato che non lo proteggeva abbastanza.
Le corrispondenze di Tortora erano decisamente controcorrente ed egli non mancava di esortare Calabresi a restare sereno e ad aver fiducia nella giustizia, esortazione, quest’ultima, particolarmente amara se si tiene a mente la sorte toccata proprio a Tortora e proprio per colpa di una giustizia indegna di quel nome. In quel periodo, Tortora aveva rotto con la tv di Stato, che non gli garantiva più la libertà di cui aveva sempre goduto, ed era stato assunto dall’editore Monti, in attesa di un incarico di prestigio alla tv svizzera. I suoi sentimenti nei confronti di Luigi Calabresi emergono in tutta la loro umanità nell’articolo che scrisse per La Nazione e per Il Resto del Carlino di giovedì 18 maggio 1972, all’indomani dell’assassinio di Calabresi. Eccone un brano:
“Io so cosa avrebbe fatto oggi di così terribile il dottor Luigi Calabresi, romano, di anni 35, coniugato, con due figli piccini, e un terzo in arrivo. Io so cosa avrebbe fatto, ieri, il dottor Luigi Calabresi, ufficiale di polizia giudiziaria, 270 mila lorde mensili, assegni familiari compresi. Lo so perché lo faceva tutti i giorni. Lo so perché gli ero amico. Lo so perché gli volevo bene. Avrebbe per prima cosa messo in moto quella piccola, vecchia “500”, davanti alla quale s’è invece abbattuto, in un lago di sangue. Sarebbe poi andato in ufficio: via Fatebenefratelli, piano quarto. Una stanza disadorna, dai muri grigi. Avrebbe lavorato duro come sempre: forse alle 14 avrebbe staccato un attimo, il tempo per un panino e una birra. E poi di nuovo, fino a sera, senza tregua. Avrebbe certo telefonato alla moglie, Gemma, chiedendole come andava, se le nausee le davano fastidio, chiedendole soprattutto come stavano i bambini. Dormivano probabilmente ancora, quando lui era uscito. Avrebbe anche detto a Gemma, come al solito: ‘Statti tranquilla, stasera ti porto io quel pane’. E si sarebbe infatti fermato, come faceva spesso, in un certo negozietto, dove, mi diceva sempre, vendevano un ottimo pane. Perché il commissario capo Luigi Calabresi non poteva permettersi, naturalmente, una persona di servizio. Ma non gli dispiaceva. Dio sa quanto mi costi oggi scrivere queste cartelle. E Dio sa quanto mi costi parlare di un amico con il quale, appena tre sere fa, ero a cena. Come spesso capitava. Vorrei però dire ai lettori subito una cosa. Non credo che Luigi Calabresi sia stato ucciso da tre pallottole. Io credo che il commissario Calabresi sia stato ucciso da piombo sì, ma anche dal piombo di certi giornali, che per lui avevano coniato da tempo, e in esclusiva, gli insulti più atroci, i marchi più roventi e infami, che avevano allestito un retroterra ideale per un delitto“.
“Ci fu un tempo in cui Milano era letteralmente tappezzata di scritte che dicevano: ‘Calabresi assassino’. Con tale perentoria, mostruosa tracotanza, che un giorno (era domenica, Calabresi era a passeggio in via Cherubini, con uno dei bambini per mano), lui mi disse: ‘Vedi, se c’è una cosa che mi consola, è che questo qui, almeno, non sa ancora leggere’. Tre anni fa, volli conoscerlo al di là dei rapporti di lavoro che ogni cronista deve avere, per necessità, con gli uomini che sono al servizio dello Stato, e dai quali, qualche volta, può ottenere notizie ed informazioni. E diventammo amici. Non era difficile del resto. Luigi Calabresi era un ragazzo di incredibile bontà, di un rigore morale, di uno scrupolo e di una umanità che lo allontanavano le mille miglia dal ruolo di ‘sbirro’ che certuni, per vile calcolo o per comoda polemica, gli avevano appiccicato addosso. Credeva in Dio, fermamente.
Quando una volta gli chiesi, nel periodo più buio delle accuse, degli attacchi, degli insulti, come faceva a resistere, senza mai un cedimento di nervi, senza uno scatto, a quell’autentico linciaggio morale al quale era sottoposto, mi rispose sorridendo: ‘È semplice. Credo in Dio. E credo nella mia buona fede. Non ho mai fatto nulla di cui possa vergognarmi. E non odio nemmeno i miei nemici. Ho angoscia per loro, non odio. È una parola, odio, che proprio non conosco’“.
Così scriveva, così era, Enzo Tortora, mio amico dai tempi del mio esordio nel giornalismo, a Genova. Aveva difeso Calabresi senza riserve, si era scagliato contro i suoi detrattori e i suoi assassini morali e pensava sempre di scrivere un libro sulla tragedia che aveva coinvolto il commissario. Non fece in tempo, perché a sua volta fu vittima della crudele persecuzione giornalistica e giudiziaria vera origine del cancro che lo portò a prematura morte. Mi passò il testimone: i fascicoli giudiziari contenenti tutti i particolari del calvario subito da Luigi Calabresi, che l’avvocato Michele Lener aveva promesso a Tortora, toccarono a me. E fu anche sulla base di quella imponente documentazione che nel 1990 potei realizzare, in qualità di curatore, il libro di memorie di Gemma Capra Mio marito il commissario Calabresi. E, molti anni dopo, Luigi Calabresi, Medaglia d’Oro, da cui fu tratta la fiction televisiva “Gli anni spezzati. Il Commissario”.