Un uomo necessario al nostro tempo. Così uno dei più grandi fotografi di tutti i tempi viene evocato in una grande mostra inaugurata dal Centro Culturale di Milano nella sua nuova sede, nel cuore della città. E’ William Eugene Smith, fotoreporter, fotogiornalista e genio enigmatico. Smith, accompagnato dall’occhio critico dell’artista ribelle (vedremo perché) con la sua macchina fotografica ha attraversato e immortalato diversi periodi, che vanno dalla depressione della seconda guerra mondiale al benessere del dopoguerra fino ad arrivare al periodo della disillusione, lavorando in quattro continenti. 



Ciò che contraddistingue Smith dagli altri grandi reporter della sua generazione è la consapevolezza che nella sua attività creativa la dimensione etica e quella estetica sono inseparabili, perché l’attimo dello scatto lega per sempre l’uomo che fotografa all’uomo fotografato ed ogni immagine così realizzata plasma, trasforma, indirizza nel bene o nel male il destino di entrambi ed il destino del mondo (ne La camera chiara, Roland Barthes scriveva che “nell’amore fatto nascere dalla Fotografia (da certe fotografie), un’altra musica dal nome estremamente démodé si fa udire: la Pietà”). 



Smith nacque a Wichita, nel Kansas, il 30 dicembre del 1918 e morì a Tucson, in Arizona, il 15 ottobre 1978. Come ebbe modo di dire una volta, la sua vocazione era quella di registrare, con la parola o con la fotografia, la condizione umana. Difficile dire se riuscì nel suo intento. Quello che è certo è che nel corso della sua vita, seppur breve e piena di sofferenza, egli ebbe modo di realizzare scatti di un’efficacia tale da mutare il modo di concepire la storia. Smith era un uomo dal temperamento drammatico e dalle emozioni violente, se non rabbiose, come si evince da una sua stessa dichiarazione: “Io fotografo — il mio nome è muto. Rabbia e dolore infiammano l’universo della mia esistenza. Il dolore è come un tornado che inaridisce e raggela. Ho molte cose da esprimere e tra queste scuse, pensieri e recriminazioni. È tardi per mettermi sulla traccia del dollaro, traccia indicata in qualche modo nella foresta meccanizzata, sul suo terreno di cemento. La traccia della mia preda è ripugnante anche quando la inseguo con bramosia — ma chi rincorre e chi è rincorso e chi è colui che corre su questa pista circolare?”. 



Ci fu in Smith in principio nascosta, ma in ultimo palese, quella che si potrebbe definire “un’oscurità ottocentesca”, illuminata dalle luci di quella colpa senza nome che ha sempre ottenebrato lo spirito creativo americano; si vedano alcuni maestri della letteratura quali Poe, Melville o Dickinson. Infatti, osservando alcuni suoi celebri scatti, possiamo notare come le zone oscure siano predominanti nella fotografia stampata. Nell’oscurità Smith trovava un tetto, e il tachicardico cuore dell’umanità, nella sua fotografia, veniva illuminato da drammatiche situazioni di luce.

La tecnica fotografica di Smith giocava tutta su questo rapporto. Vediamo le sue parole: “Ho sovraesposto circa tre volte il tempo necessario. So che tutti dicono che in tal modo si ottengono delle stampe piatte e con la parte centrale statica. Ma per me non è così… Certamente i volti sono necessariamente marcati, ma i particolari nell’ombra sono nitidi”. 

In occasione di una sua retrospettiva al Jewish Museum di New York, ai curatori che gli chiesero che titolo voleva dare alla mostra che consacrava il suo lavoro complessivo, rispose “Leth Truth be the Prejoudice”, e così fu. Questa certezza di rinvenire il vero dentro la circostanza umana e storica fa di Smith il rivelatore di quella realtà che rende il visibile “segno”. Non solo il “visibile”, ma anche “l’invisibile”, l’intenzione dell’azione, così che le ragioni dei gesti delle mosse della storia, singola o comunitaria, si palesano mostrando che sempre, sempre l’agire è per un significato ultimo. E’ certamente questo il motivo per cui Smith è maestro del reportage, della “narrazione”, perché fa accorgersi della “storia” che accade sotto i nostri occhi, stanchi o distratti, chiusi per pretesa o sbarrati per abitudine. Come recita una sua frase in mostra: “La fotografia è una piccola voce, nel migliore dei casi. Tuttavia qualche volta — solo qualche volta — una fotografia o una serie di fotografie possono farci prendere coscienza di un avvenimento” per questo la mostra milanese prende a titolo la medesima frase, “Usate la verità come pregiudizio”.

Per tentare di inquadrare il carattere di Smith si potrebbe ripartire dalle parole sopracitate, “ma per me non è così…”. Irrequieto fino alla violenza se qualcuno cercava di regolarne le abitudini, Smith, non era insolito a scatti d’ira, più di una volta è capitato che scagliasse la sua macchina fotografica contro un muro. Celebre in questo senso è una foto scattata dal suo assistente, Robert Harrah, durante una cena nel 1948. Nello scatto si vede una tavola illuminata da una candela; davanti a Smith seduto c’è un bicchiere pieno con del ghiaccio; l’artista ha dei piccoli baffi e porta le bretelle e gli occhiali; ma ciò che colpisce l’occhio è il vistoso cerotto che ha su un dito. Come avrà modo di spiegare Harrah in un’intervista, “Il cerotto sulle nocche si era reso necessario dopo una conversazione telefonica con Life in seguito alla quale Gene sferrò un pugno contro una porta”. 

Ma un altro aspetto forse imprevisto del suo carattere è la grande ironia. Racconta ancora Harrah che durante un viaggio lui e Smith si fermarono in un albergo per trascorrervi la notte, e le cena per due fu servita nella camera di Harrah. Ecco le sue parole: “…seguì il cameriere e appese sulla porta il cartello ‘non disturbare’ e dandogli la mancia gli disse ‘non è il tipo più attraente e bello che abbiate mai visto?’. Il povero cameriere si ritirò confuso. ‘Vedi Robert non puoi rovinare la mia reputazione più di quanto non faccia io stesso. Mangiamo, su, topino”.  

Insomma, un genio dalle mille sfaccettature. Ma con lui, come dice Ben Maddow — autore di una capitale biografia (ormai introvabile) edita da Jaca Book nel 1986 in concomitanza con la monumentale mostra al Meeting di Rimini — descrivendo la circostanza della mostra di Smith di New York, “la semplice umanità di Smith, la sua identificazione con il soggetto della fotografia — non l’ostilità, come in molta parte del lavoro di Richard Avedon, né l’ironia di Cartier Bresson, davano alla sua fotografia la sua reale terza dimensione: il sentimento. Cornell Capa, il padre della mostra, affermò che il risultato della mostra era ‘travolgente'”. 

Per questo motivo il Centro Culturale di Milano ha ideato e invita a vedere la mostra di un artista che ha sostenuto di essere mediocre, ma soltanto in paragone con la perfezione. Un artista che ha vissuto con il desiderio bruciante di non essere solamente bravo ma di essere il migliore; e non soltanto di essere il migliore ma di venire riconosciuto come tale; e non soltanto di venire riconosciuto come migliore, ma anche che questo riconoscimento si ripetesse in continuazione. Insomma, Gene è stato un artista che ha vissuto con la presunzione del genio, e che nel suo campo, non ammetteva la mediocrità. Come, trasferendoci al teatro, Goethe: “Vorrei che il palcoscenico fosse sottile come la corda di un funambolo, affinché l’inetto non vi si arrischiasse”. Ecco, a proposito di geni… 

 


W. Eugene Smith, “Usate la verità come pregiudizio”.
CMC – Centro Culturale di Milano (Largo Corsia dei Servi, 4; MM1 San Babila, MM3 Duomo)

24 settembre – 4 dicembre 2016. Inaugurazione: venerdì 23 settembre 2016, ore 18.30.
Più info su: www.centroculturaledimilano.it