Maria I di Inghilterra, Maria Tudor, Maria la Sanguinaria (Bloody Mary) (1516-1558): a questa celebre figlia di Enrico VIII e di Caterina d’Aragona, sorellastra di Elisabetta I, regina tra il 1553 e il 1558, sposa di Filippo II di Spagna tra il 1556 ed il 1558, restauratrice tragica e tormentata del cattolicesimo romano in quel regno di Inghilterra e d’Irlanda che l’aveva ripudiato tra il 1532 ed il 1534, la letteratura (in) inglese ha spesso riservato un destino drammatico, controverso e, proprio per questo, affascinante.
Sir Aubrey de Vere (1788-1846), poeta angloirlandese di religione anglicana ma sostenitore della “Catholic Emancipation”, la ritrasse nell’ormai dimenticato (e mai tradotto in italiano) Mary Tudor: An Historical Drama in versi, pubblicato postumo nel 1847 e nel 1884 a cura del figlio Aubrey Thomas de Vere (1814-1902), poeta lui pure, convertitosi al cattolicesimo nel 1851: quel dramma elaborava il giudizio di Mary Tudor che lo stesso autore aveva già formulato in un sonetto del 1842 in cui la definiva “colei che il Fato aveva sigillato con la cecità attraverso intollerabili avversità”.
Su tutt’altro versante si pose, invece, più tardi Hilaire Belloc (1870-1953), scrittore cattolico di padre francese e madre inglese, quando incluse un saggio su Mary Tudor nella sua celebre galleria di ritratti intitolata Characters of the Reformation (1936), anch’esso inedito in versione italiana. Secondo Belloc, tra tutti quei Personaggi della Riforma Inglese “che sono stati presentati ai lettori dei nostri giorni in modo distorto” e che “sono la maggioranza”, Mary Tudor “fu più oggetto di azioni altrui che soggetto di proprie; tuttavia, poiché la sua figura è stata più distorta di qualunque altra, è necessario e importante comprenderla correttamente per poter giudicare il suo tempo”. E Belloc soggiunge: “La ragione per cui il suo personaggio è stato più distorto di qualunque altro è questa: Maria Tudor fu la più fortemente cattolica tra tutte le principali figure della sua epoca”.
Anche Robert Hugh Benson (1871-1914) fornì la sua interpretazione fictional delle vicende di tale figura storica e lo fece percorrendo un terreno letterario diverso da quello attraversato da Aubrey de Vere e Hilaire Belloc. Ne venne The Queen’s Tragedy, un historical novel pubblicato nel 1906, attualizzazione di un genere testuale che Belloc apprezzava a tal punto nella versione di Benson da scrivere quanto segue al di lui fratello (non convertito) Arthur Christopher (1862-1925) nel 1907: “era scritto che fosse proprio lui [Robert Hugh] a scrivere un giorno un libro in grado di offrirci una qualche idea di ciò che accadde in Inghilterra tra il 1520 ed il 1560”. Che, poi, The Queen’s Tragedy uscisse per i tipi di una casa editrice londinese fondata da Isaac Pitman (inventore della stenografia e dell’insegnamento a distanza, nonché di solida fede swedenborghiana) dimostra che le vie della Provvidenza (anche culturale!) sono davvero infinite…
Oggi, proseguendo nella sua benemerita opera di diffusione della narrativa bensoniana, l’editrice veronese Fede e Cultura ne propone la prima edizione italiana, La tragedia della Regina, con il programmatico e pedagogico sottotitolo di Maria Tudor, sovrana incompresa (assente nell’edizione originale del 1906) e con la diligente traduzione di Sara Marzatico Giulidori, rivista da Paolo Nardi.
È proprio un romanzo storico The Queen’s Tragedy di Robert Hugh Benson? Era ancora possibile scriverne nel 1906 (e non nel 1907, come figura nel colophon della nuova traduzione italiana)? Secondo quale specifica declinazione e con quali obiettivi culturali? La dedica di The Queen’s Tragedy all’austera bambinaia Beth di Benson, datata 1 maggio 1906, offre qualche indizio in proposito: “in occasione della pubblicazione di alcuni miei precedenti libri, alcuni critici avevano espresso le loro perplessità in modo cortese osservando che il regno di Mary Tudor raccontava in realtà una storia assai diversa in merito a quel personaggio cattolico. È proprio quella storia che mi accingo ora a esporre nel modo più onesto che mi è possibile” (mio corsivo).
Dunque, Benson non intende allinearsi al conformismo del politically correct (patologicamente influente allora come oggi, benché sotto diverse spoglie) e delle ricostruzioni storicamente ideologizzate degli “authors of today” (apparentemente interessati a quei “progressi nel campo della conoscenza storica, e, più ancora, nella nostra conoscenza delle condizioni economiche e sociali”) di cui Ernest Edwin Reynolds (1894-1980) scrisse in un saggio sugli historical novels di Benson, pubblicato sulla rivista cattolica londinese Dublin Review nel 1959. È invece l'”onestà” menzionata nella dedica a Beth il principio ispiratore della narrazione di The Queen’s Tragedy, un romanzo la cui lettura molti lettori affrontarono con qualche difficoltà, come scrisse il gesuita Cyril Charles Martindale (1879-1963) nella sua splendida biografia bensoniana del 1916, giacché, “a un primo approccio, Benson, che poteva senza dubbio fare a meno di una trama, pare davvero — per così dire — aver buttato giù le sue impressioni psicologiche all’ingrosso, schiacciandole tra pagine e pagine di descrizioni”.
In realtà, ancora secondo Martindale, come in tutti i suoi romanzi, anche in questo caso Benson intende affrontare “one point”, “aiutare” un lettore o un gruppo di lettori: una volta affrontato quel “point” e raggiunti quei destinatari, “tout le reste n’est que littérature” (in francese nel testo di Martindale!) e non ha grande importanza. Tale “point” in The Queen’s Tragedy consiste nel “dipingere un ritratto spiritualmente convincente della Regina Mary”, rispetto al quale tutti gli ingredienti testuali — “struttura, sviluppo, climax, e affini” — e tutti i riferimenti contestuali “divengono, nella migliore delle ipotesi, secondari”.
Quel ritratto spiritualmente convincente non va semplicemente ad aggiungersi a innumerevoli altre rappresentazioni dell’umano in un’ideale galleria di magnifici individui, isolati nella loro irripetibilità e rappresentati sulla scena scientificamente accurata e positivisticamente riconoscibile di altrettanti historical novels d’ogni tempo e paese.
Al contrario, con un’intuizione strutturalmente strategica e culturalmente raffinata che non viene purtroppo riproposta nella versione italiana di Fede e Cultura per ragioni che è difficile comprendere, Benson riesce a saldare la tragica esperienza di Mary Tudor con quella universale dell’umano, inanellando una pregevole catena di tredici citazioni macrotestuali di matrice classica, greca e latina, che inaugurano sia l’intero volume (con il Marziale di “la più grande virtù di un principe è conoscere i propri sudditi”), sia ognuno dei dodici capitoli, fino alla chiusa ciceroniana del dodicesimo, tratta dal Cato Maior, De Senectute: “Dalla vita così mi allontano, come da una locanda, non come da una casa”.
In tal modo sapiente, una partitura narrativa che intreccia figure attestate storicamente ad altre più liberamente concepite, luoghi ritrovabili sulle mappe del secondo cinquecento inglese ad altri che emergono dalla geografia della mente, situazioni documentate negli annali ad altre rese possibili dalle potenzialità dell’intuizione, anche The Queen’s Tragedy di Benson si rivela storico e universale, concreto e spirituale, interprete fedele di un cattolicesimo che è “materialistico come la Creazione e l’Incarnazione, né più né meno”, come si legge in quel passo abbagliante dall’ottavo capitolo delle sue Confessioni di un Convertito (pubblicate in rivista nel 1906-1907 e in libro nel 1913; in versione italiana da Gribaudi nel 1996) che anticipa sorprendentemente di più di mezzo secolo quanto La Pira scrisse in una celebre lettera a don Alfredo Nesi del 29 marzo 1970: “i veri materialisti siamo noi — “materialismo integrale”! Siamo noi che crediamo nel corpo di Cristo risorto e nella conseguente destinazione terrestre e celeste, temporale ed eterna del corpo umano!”.
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