In una bella intervista al Corriere della Sera del 26 luglio di quest’anno, Zygmunt Bauman, forse il più grande sociologo vivente, ha offerto una diagnosi esatta del sentimento sociale oggi più diffuso, sotto la spinte che già notava Habermas — nel famoso dialogo di Monaco del 2004 con Ratzinger — dello “sfaldamento della solidarietà tra i cittadini dello Stato … nel più ampio contesto di una modernizzazione aberrante, di una dinamica non politicamente controllata dell’economia e della società globalizzata”: l’insicurezza. 



“Le radici dell’insicurezza sono molto profonde. Affondano nel nostro modo di vivere, sono segnate dall’indebolimento dei legami […], dallo sgretolamento delle comunità, dalla sostituzione della solidarietà umana con la competizione”. E aggiunge Bauman: da questa mancanza di legami viene la paura, per diffondersi su tutti gli aspetti delle nostre vite. E’ poco meno che intuitiva la deduzione, da questa paura, della chiusura agli “altri” da “noi”. La scena dell’indifferenza o dell’aggressività, che si vede nel rifiuto di chi chiede accoglienza approdando sulle nostre coste, quando sopravvive a quel cimitero che è diventato il Mediterraneo. E la chiede cercando in Europa la salvezza da ben altre insicurezze che l’allentamento dei legami sociali o la mancanza di solidarietà: la guerra, e la fame. 



Ma, d’altro canto, se i popoli d’Europa non si sentono sicuri neanche dei rapporti tra loro, e ognuno a casa sua nei rapporti sociali e quotidiani della propria vita, come possono sentirsi sicuri all’arrivo di “altri”, al loro aggiungersi ai loro problemi, ai problemi che hanno già tra loro? Una distonia dell’emotività sociale che cambia le carte in tavola della percezione della stessa realtà economica di cui vivono da decenni, che è ancora molto meglio che altrove nel mondo, e che devono al fondamentale contributo dell’immigrazione.

Come ha notato recentemente Julián Carrón, la diagnosi di Bauman aggiorna, alla circostanza dei tempi, un’analisi che era già di Giussani, formulata più di vent’anni fa e in maniera ancora più radicale. Quello che “caratterizza l’uomo oggi [è] il dubbio sull’esistenza, la paura dell’esistere, la fragilità del vivere, l’inconsistenza di se stessi, il terrore dell’impossibilità; l’orrore della sproporzione tra sé e l’ideale”. E continuava: “Questo è il fondo della questione e da qui si riparte per una cultura nuova, per una criticità nuova”. Partendo come sempre dall’intuizione che la risposta ad una domanda, a una sfida dell’umano partiva, prima ancora che dalla circostanza da un approfondimento dell’umano coinvolto in quella circostanza.



Ecco noi oggi siamo ancora lì, a questo “fondo” non risolto dell’umano. Di nuovo. Com’è necessario. Perché il richiamo a Giussani, la prossimità, se non l’identità di un’analisi, rileva che sul punto di questo “fondo” dell’umano (il “livello della povertà evangelica”, diceva Giussani) non c’è niente di “originale” da dire, mai. Ma solo qualcosa di “originario”, di un’evidenza originaria dell’umano da riprendere sempre di nuovo, da restituire integra alla nostra consapevolezza.  

Da questa evidenza della nostra circostanza, le nostre insicurezze e le nostre paure, e insieme il nostro bisogno dell’umano, che l’altro sia un bene per noi, la sola vera benedizione che vorremmo incontrare, noi siamo sfidati dal bivio di due risposte possibili. 

muri o i ponti, il dialogo. I muri che non servono a niente, come ancora Bauman ci avverte nella stessa intervista (“Una volta che nuovi muri saranno stati eretti e più forze armate messe in campo negli aeroporti e negli spazi pubblici; una volta che a chi chiede asilo da guerre e distruzioni questa misura sarà rifiutata, e che più migranti verranno rimpatriati diventerà evidente come tutto questo sia irrilevante per risolvere le cause reali dell’incertezza”); e come anche Papa Francesco ha sottolineato mesi fa: “Io ho sempre detto che fare muri non è una soluzione: ne abbiamo visto cadere uno, nel secolo scorso. Non risolve niente”. Oppure, più sensatamente, il sensatamente del “buon senso”, cioè più razionalmente e insieme più umanamente, possiamo costruire ponti, essere architetti del dialogo necessario a governare la globalizzazione, le sue opportunità e le sue difficoltà, i suoi pericoli per l’umano, che sono la “circostanza”, di cui siamo chiamati a farci carico. 

Un grande filosofo, Heidegger, ha scritto una volta che sono i ponti a superare i fiumi e i burroni, “sia che i mortali facciano attenzione allo slancio oltrepassante del ponte, sia che dimentichino che, sempre già sulla via dell’ultimo ponte, [nel costruire ponti] essi fondamentalmente si sforzano di superare quanto hanno in sé di mediocre e di malvagio, per presentarsi davanti all’integrità, alla salvezza del divino”. Costruire ponti tra gli uomini, ponti di dialogo e di solidarietà, per superare il fiume delle circostanze che sempre mutano, eppure sempre propongono all’uomo la stessa sfida, quella della sua umanità, non per buonismo, ma per non precipitare nel burrone di circostanze non governate, è il compito che ci affidano oggi il cuore e la ragione. Anche a chi non avesse fede, e le sue ragioni, dovrebbe bastare a dirglielo la ragione.