Verso la fine del 2015 è uscita la traduzione di Ilaria Piperno di un curioso libretto di Ella Frances Sanders, Lost in Translation (Marcos y Marcos), su un tema che in qualche modo ha a che fare con il confronto fra culture a cui la globalizzazione ci obbliga. Il tema è quello della difficoltà, e a volte dell’impossibilità, di trasferire certi concetti da una cultura all’altra. Insomma la domanda è: si può tradurre tutto? Esistono gli intraducibili, cioè esistono concetti che proprio non si possono trasferire da un contesto culturale all’altro?  



Diciamo intanto che ci sono due tipi di intraducibili: gli intraducibili che derivano dalla struttura stessa delle lingue e gli intraducibili che sono tali perché esprimono un universo concettuale in parte o del tutto estraneo.

I primi dipendono da come sono fatte le lingue, dalla loro tipologia. Ad esempio se abbiamo una lingua agglutinante (cioè una lingua le cui parole sono formate dall’unione di più parti, più morfemi) come il finlandese, il giapponese o il coreano, non è difficile che idee o fatti che noi esprimiamo con un insieme di termini o frasi intere possano essere espressi da una sola parola. Il libro di Ella Frances presenta molti di questi casi. Ne è un esempio il termine giapponese komorebi, che significa “la luce del sole che filtra attraverso i rami degli alberi”. Questo termine è un composto di ko, “albero”, forma antica del moderno ki; ?more, “passare attraverso, perdersi”, che viene dal verbo moreru, “passare attraverso, perdersi”; hi, “sole, luce del sole” con hi che diventa bi per sonorizzazione). Il finlandese non è da meno in questo catalogo degli intraducibili che dipendono dalla struttura linguistica proposti dalla Sanders. Ad esempio poronkusema, composto di poron, “renna” e kusema da kusta “orinare”, è lo spazio che compie una renna prima di fermarsi ad orinare, circa 7,5 chilometri. È una delle antiche unità di misura finlandesi. 



Come si vede in questi casi è la lingua stessa a porre dei limiti permettendo o no certe cose. Non potremmo indicare con una parola sola lo spazio che percorre una renna prima di fermarsi ad orinare anche se avessimo renne, la nostra lingua non lo permetterebbe. Oppure tutti noi abbiamo visto la luce filtrare attraverso gli alberi ma non potremmo esprimere con un solo termine in italiano la stessa cosa. 

Alle volte però succede qualcosa di straordinario e il termine dell’altra lingua che non riusciamo a tradurre ci apre spazi impensati. È come se si liberasse un varco del pensabile a noi prima sconosciuto. L’impensabile si palesa alla nostra mente proprio grazie alla lingua estranea. In questo caso qualcosa appare alla nostra evidenza proprio perché c’è una qualche lingua che lo nomina. Per certi versi contraddice il senso comune e cioè che se qualcosa esiste può essere detto. È invece perché qualcosa può essere detto che ci appare in tutto il suo nitore. Ci illumina. 



Si possono aprire spazi minuscoli come accade nel caso di gurfa, che in arabo è l’acqua che si può tenere nell’incavo della mano. O si possono inaugurare intere tradizioni culturali come avviene nel passaggio dall’ebraico‘ehyeh al greco On o dall’ebraico tob al greco kalos che diventerà il latino bonum, o ancora come accade nella storia del concetto di amore dall’ebraico ‘ahavah, passando per la dialettica eros e agape nel greco e per il latinocaritas per finire nel moderno carità/amore. Concetti che sono stato considerati intraducibili ma che tradotti hanno cambiato l’enciclopedia occidentale, non ebraica e non più greca, qualcosa di diverso che deriva da questo tentativo continuo di vincere l’intraducibile. 

In questo senso parlare d’intraducibili, come dice Barbara Cassin nella sua introduzione al Vocabulaire Européen des philosophies (Dictionaire des intraduisibles), è parlare di ciò che non finisce mai di essere tradotto. Gli intraducibili possono far nascere concetti nuovi creando neologismi o imponendo un nuovo senso a parole.

E visto che abbiamo citato esempi biblici, vorrei ricordare il mito di Babele che per una volta con Paul Ricoeur e Paul Beauchamp (Paul Ricoeur, “La traduction, un choix culturel” Esprit 6, 1998) possiamo interpretare non come la condanna divina che un Dio lontano infligge agli uomini. Una prospettiva che sottolinea una storia di progressiva diversificazione dall’informe delle origini alla molteplicità delle genti. Una storia che parte dalla Genesi, cioè dalla diversificazione degli elementi che permette l’emergere di un cosmo da un caos, per continuare con la cacciata dal giardino dell’Eden e la perdita dell’innocenza, che è sì una separazione ma può anche essere interpretata come un passaggio all’età adulta, toccando l’uccisone di Abele, una rottura che fa però della fratellanza un qualcosa che non è più un dato di natura ma ha un valore etico. Una storia che si conclude appunto con Babele, che porta la diversificazione nel linguaggio stesso, in ciò che c’è di più umano in assoluto e si conclude con la moltiplicazione delle lingue da intendere però come ricchezza e non come povertà. Babele non è una condanna, al contrario è una possibilità in più.

Se hai una lingua sola, come prima di Babele, si finisce per ridursi a parlare delle stesse cose, non si è investiti da tutto ciò a cui l’estraneo ci provoca. Un po’ come in quei gruppi in cui si sta sempre fra le stesse persone e alla fine si dicono e si pensano sempre le stesse cose. Se le lingue e le culture non subiscono l’impatto dell’estraneo invecchiano e basta. E  una volta invecchiate muoiono. Babele è dunque una ricchezza perché la moltiplicazione delle lingue è stata la moltiplicazione degli universi che possiamo pensare. 

Essa ci ha dato come compito proprio quello di tradurre perché il nostro pensiero si aprisse a orizzonti mai pensati possibili prima.