Tra pochi giorni, alla riapertura delle scuole, gli insegnanti italiani si dedicheranno alla programmazione della loro attività didattica annuale. Per alcuni un semplice “copiaincolla”, non solo di ciò che hanno scritto l’anno scorso nei “piani di lavoro” (tanto chi li legge?), ma anche — il che è assai più grave — di quel che hanno fatto nelle classi, anno dopo anno, ripetendo sempre le stesse cose (tanto sono i ragazzi che cambiano). Per altri la fatica sempre nuova di immaginare un percorso che unisca in maniera plausibile due punti tra loro remoti: da una parte i programmi, che nella loro ufficialità dichiarano ciò che lo Stato decide che è importante trasmettere alle nuove generazioni, e dall’altra le persone dei ragazzi, da intercettare là dove sono (dove?), appassionare a quei contenuti e portare ad una consapevolezza critica del loro significato.
Le difficoltà, i problemi, i fattori da tenere in conto in questa progettazione sono già tanti che potrebbe sembrare inopportuno aggiungere un’altra domanda a quelle che i docenti già si pongono, ma ci provo lo stesso. La formulo un po’ rozzamente, ma mi interessa andare subito al nocciolo della questione: il cristianesimo è il fatto culturale più importante della nostra storia, ma quanto c’è di “cultura cristiana” nei contenuti che la scuola italiana propone ai suoi studenti? Per essere ancora più concreto: un mese e mezzo fa si sono conclusi gli esami di maturità. Bene, che posto ha avuto, in quello che è stato anche il rendiconto del lavoro intellettuale compiuto nell’arco di cinque anni da un’intera generazione di giovani italiani, il cristianesimo? Nelle centinaia di migliaia di prove scritte e orali che anche quest’anno sono state svolte, che rilevanza avrà avuto il fatto cristiano in quanto generatore di una cultura, di un giudizio originale sulla realtà, cioè come esplicitazione di quel “pensiero di Cristo” che, stando a san Paolo (1 Cor 2,16), è il fattore determinante del nostro rapporto con la realtà? Quanto avrà contato, nella formazione scolastica della classe 1997 che gli esami da poco conclusi dovrebbero aver verificato?
Azzardo una risposta: pochissimo. Il cristianesimo, anzi il “pensare cristiano”, al di là di certe apparenze, è fuori dai programmi della scuola italiana. Può esserci, beninteso, nel modus operandi di molti insegnanti cristiani, ma non è di questo che parlo. Benché larga parte dei contenuti di cui pure la scuola si occupa derivino da una matrice culturale cristiana, non è in questa prospettiva (che sarebbe la sola storicamente e filologicamente corretta) che la scuola li considera. Per non allargare troppo il discorso, se scorressimo i programmi delle materie umanistiche svolti nell’ultimo anno dei licei che cosa troveremmo?
In greco, si studia la letteratura fino all’età ellenistica, poi più nulla; in latino si arriva forse ad Apuleio: in entrambi i casi, di regola si ignora completamente la letteratura cristiana. Per la scuola italiana il Nuovo Testamento non esiste, non esistono Clemente e Origene, non esistono i padri Cappadoci, né Tertulliano, Girolamo, Ambrogio e neppure Agostino (in qualche programmazione, tra quelle che ho visto, di quest’ultimo autore può esserci uno sparuto frammento, che però galleggia nel vuoto). Il corso di letteratura italiana, nato male in terza con l’assurda impostazione di un “problema delle origini” di cui non si viene a capo perché si ignora quasi totalmente la cultura latina medievale, finisce in quinta con una ormai sempre più affannosa e inadeguata rincorsa della contemporaneità di cui, tra gli altri, fa le spese quel poco di Dante che vi è rimasto. Nei programmi di filosofia, temo che non vi sia spazio neanche per l’idea di una filosofia cristiana (idea che del resto a molti docenti pare una contraddizione in termini) e si risente pesantemente il deficit culturale derivante dall’eliminazione della teologia dall’ambito della universitas scientiarum. Se ci si può permettere di studiare e insegnare Dante senza conoscere la teologia cattolica, ci si può anche permettere di capire assai poco di Hegel presentando la sua filosofia a prescindere dalla teologia trinitaria (benché già da Feuerbach dovrebbe essere chiaro che quella di Hegel è “teologia mascherata”).
Si potrebbe continuare a lungo, ma la faccio breve: il messaggio fondamentale che passa attraverso l’assetto culturale delle discipline scolastiche è che il cristianesimo è una cosa del passato, un fattore tra i tanti della nostra storia, ma non un punto di confronto particolarmente importante e attuale. La fede non c’entra con la cultura (quanto meno con la cultura attuale). Quindi non viene interpellata quando si tratta di formare i giovani alla critica, cioè al giudizio sulla realtà. Giovanni Paolo II formulò, più di trent’anni fa, un criterio ermeneutico fondamentale per la comprensione della storia della cultura europea: “Se nel corso di crisi successive la cultura europea ha cercato di prendere le sue distanze dalla fede e dalla Chiesa, ciò che allora è stato proclamato come una volontà di emancipazione e di autonomia, in realtà era una crisi interiore alla stessa coscienza europea, messa alla prova e tentata nella sua identità profonda, nelle sue scelte fondamentali e nel suo destino storico. L’Europa non potrebbe abbandonare il cristianesimo come un compagno di viaggio diventatole estraneo, così come un uomo non può abbandonare le sue ragioni di vivere e di sperare senza cadere in una crisi drammatica. È per questo che le trasformazioni della coscienza europea spinte fin alle più radicali negazioni dell’eredità cristiana rimangono pienamente comprensibili solo in riferimento essenziale al cristianesimo”. Per questo, “le crisi dell’uomo europeo sono le crisi dell’uomo cristiano. Le crisi della cultura europea sono le crisi della cultura cristiana” (Discorso ai vescovi europei, 5 ottobre 1982). Che agibilità può mai avere un formidabile strumento conoscitivo come questo, nell’attuale assetto della scuola italiana?
Il punto è che con il cristianesimo non ci si vuole confrontare sul piano dell’intelletto, della cultura, del giudizio. Lo si tollera, ancora, sul piano dell’esperienza privata e di una certa operatività caritativa-sociale ma lo si esclude dal campo dalla cultura. A ben vedere, si è realizzato così il programma dell’imperatore Giuliano (361-363), il primo intellettuale post-cristiano che, una volta salito al trono, all’interno del suo piano di restaurazione del paganesimo progettò una riforma del sistema scolastico romano. Lui che, pur avendo un’approfondita conoscenza del pensiero cristiano, in tutti i suoi numerosi scritti deliberatamente e platealmente lo ignora non volendogli riconoscere alcuna dignità culturale, come legislatore si mostra preoccupato di troncare ogni rapporto tra il cristianesimo e la paideia. Per questo, con un editto del 17 giugno 362 (Cod.Theod. XIII 3,5) dispone che chiunque voglia insegnare venga prima sottoposto ad un esame da parte delle autorità municipali e, in seconda istanza, davanti all’imperatore stesso. In pratica, inventa le abilitazioni! La scuola, così, diventa un affare di stato, e anche se la legge non lo dice (queste cose le leggi non le dicono mai) è difficile negare che tra gli scopi di questa nuova procedura ci sia quello di escludere dall’insegnamento i maestri cristiani. In una sua lettera, infatti, Giuliano dichiara di trovare assurdo che possa spiegare le opere di Omero e degli altri autori della letteratura pagana (che erano allora la base dell’insegnamento scolastico) chi disprezza quegli dèi che da loro sono venerati. Chi non è pagano, e per giunta crede che la fede cristiana possa incontrarsi con la cultura pagana e metterla fecondamente in crisi, stia fuori dalla scuola e “se ne vada nelle chiese dei Galilei a spiegare Matteo e Luca!” (ep. 61c). Missione (quasi) compiuta, maestà.