Ewa Chrusciel, poetessa polacca, vive la condizione di migrante da quando era adolescente. Da tempo trapiantata negli Stati Uniti, insegna poesia e scrittura creativa al Colby-Sawyer College (New Hampshire, Usa), e scrive tanto nella sua lingua materna che in quella di adozione. Abbiamo letto in anteprima il manoscritto del suo nuovo libro, Dybbuk of Angelus, in uscita alla fine dell’anno. Il grande protagonista è la terribile migrazione che segna il nostro tempo, in eterna lotta fra la morte e la speranza. Non è, però, un libro militante; se è politico, lo è nel senso più ampio del termine, perché è un libro in cui l’essere umano — tanto il poeta, quanto il fuggitivo, quanto il volontario, o chiunque si trovi nel turbine duro della luce che filtra dalle pagine — è costretto a guardarsi nella vicenda dell’altro come in uno specchio, e a interrogare la propria vita in relazione alla vita del mondo, senza possibilità di sconto. A proposito del suo ultimo libro edito, The contraband of hoopoe, Jorie Graham ha scritto: “Il libro è scritto da un immigrato, e questo immigrato è l’essere umano. Per questa specie tutto è una sorgente di stupore e orrore. Essa cerca ovunque indizi su dove siano i confini”. Le abbiamo dunque chiesto da dove tragga origine questo nuovo lavoro.
Perché un libro sui migranti?
Perché il dramma dei rifugiati è il nostro Olocausto contemporaneo. Per me queste persone — quelle che fuggono dalla guerra, dall’oppressione, dalla persecuzione — rappresentano il Cristo rifiutato. Quando questa gente affoga, è come Cristo che affoga. Alcuni si mettono la catenina col crocifisso in bocca prima di morire… Ma anche perché le parole stesse sono migranti. Prendono a prestito, fanno impollinazioni incrociate, si spostano. In questo senso, il mio libro è anche sul linguaggio.
Credi alla poesia come forma di testimonianza?
La poesia è sempre testimone di qualcosa, che sia la bellezza, o la fede, l’odio, o la disperazione. Le parole hanno un peso e un significato. Dopotutto, non è una coincidenza che la Parola si sia fatta Carne. Anche parole più piccole diventano una carne — o un lampo. Creano la realtà.
Di fronte alla morte e alle tragedie umane, che cosa possono fare le parole scritte?
A volte abbassano il divisorio tra noi e gli altri. Merleau-Ponty chiama le parole “gli occhi sulla punta delle tue mani”. In altre parole, noi ci adattiamo e ci mettiamo in relazione con l’altro attraverso il nostro linguaggio e il nostro corpo. Ne La prosa del Mondo Merleau-Ponty scrive: “Dobbiamo capire che il linguaggio non è un impedimento alla coscienza e che non c’è differenza, per la coscienza, tra la trascendenza di sé e l’espressione di sé. Nel suo stato vivo e creativo, il linguaggio è il gesto di rinnovamento e guarigione che unisce me con me stesso e gli altri”.
Perché la poesia non è solo reportage, ma anche trasferimento; rimette in atto un’esperienza data, così da poter far nascere la consapevolezza o lo scopo dell’immaginazione o portare all’empatia. Quindi può rimettere in atto il dolore di una vittima, o il momento dello stupore. La buona poesia ti trasforma, perché ti aiuta ad attraversare la tua o l’altrui esperienza, invece di girarle attorno. La letteratura, in generale, aiuta a sviluppare l’immaginazione e l’empatia. Si scoprono nella propria immaginazione e nel proprio cuore posti di cui non si conosceva l’esistenza. Per Ian McEwan, la mancanza di empatia equivale al fallimento dell’immaginazione. Nel suo pezzo del 2001 per il Guardian, riferendosi all’11 settembre, McEwan scrive: “Se i dirottatori fossero stati in grado di immaginarsi nei pensieri e nei sentimenti dei passeggeri, non sarebbero stati in grado di procedere. E’ duro essere crudeli una volta che ci si è dati il permesso di entrare nella mente della propria vittima. Immaginare come sia essere qualcun altro da se stessi è al cuore della nostra umanità. E’ l’essenza della compassione, e l’inizio della moralità”.
Viviamo in un tempo in cui i poeti, specialmente nel Medio e Lontano Oriente, possono ancora rischiare la vita per scrivere poesia, eppure la poesia sembra oggi la Cenerentola delle arti. Che urgenza avverti nel mantenere questa “lingualarga”, come direbbe Les Murray, contro il potere, la violenza, la repressione? Questo era vero anche nell’Europa dell’Est. Credi che essere polacca e venire da quel tipo di realtà ti ponga in una posizione di consapevolezza maggiore?
Sì, il fatto di essere cresciuta e andata a scuola durante il regime comunista in Polonia mi ha portato a credere che la poesia non è solo un campo di gioco linguistico, o uno stile di vita. al contrario, la poesia ha il potere di opporsi al regime, se non di rovesciarlo. Come scrivono Dostoevskij e Flannery O’Connor, la Bellezza conquisterà il mondo. Per parafrasare Jorie Graham, nell’intervista che le feci con Milosz Biedrzycki nel 2013, un poeta è come un canarino in una miniera. Quando il canarino smette di cantare, significa che nella miniera ci sono delle condizioni letali. Il poeta canta anche per opporsi ai regimi, alla violenza, all’ingiustizia, all’oppressione, alle bugie. Il canarino nella miniera sta anche per il poeta nelle culture in cui la poesia muore. Quando muore il poeta, muore la civiltà. Nella sua poesia “Asfodelo, quel fiore verdastro”, William Carlos Williams scrive: “è difficile/ ricevere notizie da poesie,/ eppure uomini muoiono/ miseramente ogni giorno/ per mancanza di ciò/ che là si trova”.
In quanto immigrata, che rapporto hai con le esperienze che riporti nel tuo libro?
Mi sento nomade nella vita, anche se ho i miei luoghi di appartenenza. Spesso faccio e disfo valigie, e me le porto da un aeroporto all’altro. Ho una forte consapevolezza che, in realtà, siamo tutti pellegrini senza una casa. Essendo un’immigrata, ho anche fatto esperienza di come ci si senta ad essere trattati con un certo sospetto o una certa superiorità. So come ci si sente ad essere un outsider; a dover sempre provare che sono degna di essere una brava insegnante o cittadina o poeta, per via del mio accento o della mia mentalità diversa. Non posso dare niente per scontato. Non mi sento mai totalmente sicura. Nella mia vita tutto è provvisorio. Edward Said scrive in maniera meravigliosa della sua condizione dell’esilio interno nel suo saggio Riflessioni sull’esilio. Dice che la condizione dell’esilio è non sentirsi mai in pace o soddisfatti di se stessi. Credo che questa sia una condizione umana. Noi — umani — siamo degli esiliati.
La poesia ripristina l’urgenza di appartenere?
La poesia spesso parla di sradicamento. Come ho detto prima, le parole sono migranti; attraversano confini e spezzano barriere. La poesia ci parla di sete, irrequietezza e smarrimento. Ma ci aiuta anche a ricreare la realtà, specialmente se la realtà “originale” ci ha ferito. In quel senso può ripristinare un senso di appartenenza.
Le persone nel tuo libro sono reali? Che rapporto c’è tra la tua esperienza quotidiana e la tua scrittura?
Sì, alcuni personaggi sono reali. Ci sono citazioni e riferimenti, ad esempio ai personaggi del film documentario italiano Io sto con la sposa. Ci sono anche riferimenti ad Alan Kurdi, e ad altre vittime.
Derek Walcott scrive che “per cambiare lingua/ devi cambiare vita”. E’ vero anche per te?
Sì, quando ho lasciato la Polonia per gli Stati Uniti, ho arricchito la mia esperienza e ho anche cominciato a scrivere in inglese. L’inglese mi ha dato una nuova vita attraverso la lingua.
La tua poesia è piena di epifanie. Perché questa persistenza del sacro ha bisogno di essere messa in parole?
Per tutto quello che ho detto prima. E anche perché la poesia è abitata da molte voci che vogliono parlare attraverso di noi. Come i dybbuk. Nella tradizione ebraica, il dybbuk è lo spirito di una persona morta prematuramente che ci abita per portare a termine la propria missione. Penso che il dybbuk sia una metafora della poesia… Volevo che le poesie in questo libro fossero dei dybbuk; dessero voce a quelli che non hanno voce né potere.