Conclusa la grande kermesse delle Olimpiadi, archiviati il tifo, le ore davanti alla tv, il computo delle medaglie per gli atleti più celebri, ora che iniziano le paralimpiadi e che si parla della candidatura di Roma 2024, vale la pena interrogarsi sul senso e il valore di questa manifestazione periodica, e sul significato, simbolico e non, che lo sport ha assunto nelle nostre vite. Jürgen Moltmann, teologo tedesco e membro della Chiesa evangelica riformata, che ha insegnato Teologia sia a Bonn che a Tubinga, autore fra l’altro di Teologia della speranza (1970), Il Dio crocifisso (1973) ed Etica della speranza (2011), nella sua breve riflessione su Le Olimpiadi come religione moderna si concentra sull’importanza che il mondo contemporaneo attribuisce, universalmente, alle manifestazioni olimpiche: non per nulla il sottotitolo del volumetto è “La dimensione universale della competizione sportiva”. Il saggio, edito per la prima volta in Italia con il titolo I giochi olimpici tra politica e religione in “Concilium. Rivista internazionale di teologia”, 5, Queriniana, 1989, pp. 137-147, parte dalla pretesa mancanza di rapporto fra Olimpiadi e tematiche politiche. In realtà, ciò non è del tutto vero, perché già Pierre de Coubertin, il fondatore delle moderne Olimpiadi, combinava l’idea della manifestazione sportiva con due interessi politici: uno di politica interna, data l’enorme capacità di distensione che si riconosce allo sport riguardo ai conflitti sociali, quasi che si trattasse di una sorta di “parafulmine sociale”, come se la vittoria in una competizione olimpica aumentasse il senso di coesione nazionale; l’altro di politica estera, poiché nella partecipazione alle Olimpiadi si vede sempre in gioco, in senso più o meno forte, “l’onore” di una nazione: per dirla con le parole di de Coubertin, “Il concorrente che partecipa ai giochi olimpici esalta la propria patria”.
Ma, di questi tempi, sembra che dall’atmosfera olimpica siano stati banditi i concetti di gioco e piacere, visto che le Olimpiadi sembrano a volte essere diventate “una lotta di prestazioni a profitto dell’interesse politico” (tenuto conto dei costi dell’organizzazione dei giochi, della preparazione degli atleti, etc.). Ma uno degli elementi più interessanti che sembrano risorgere ogni quattro anni, e su cui Moltmann si sofferma dettagliatamente, è il senso di una sacralità connessa ai Giochi, sorta di vera e propria “religione olimpica”, senza la quale, a detta di molti, mancherebbero il dinamismo, l’entusiasmo, la consapevolezza di partecipare a un assoluto.
Sicuramente, questo concetto non poneva problemi nelle Olimpiadi greche: la religione ellenica pagana era una religione “festosa”, una religione dell’uomo, di scarsissimo afflato mistico, e che viveva di occasioni simili a quelle che trovavano compimento e coronamento nei giochi. Ma nelle Olimpiadi moderne de Coubertin aveva potuto mutuare, ovviamente, dell’antica religione olimpica solo il rituale, e non le divinità. Per lui, il luogo dei giochi doveva diventare “un territorio sacro”; l’entrata degli atleti era paragonabile a “una processione”, il comitato olimpico era “un collegio di sacerdoti”, perché “alle Olimpiadi ci si raccoglie per fare un pellegrinaggio nel passato e una dichiarazione di fiducia nel futuro. Questo potrebbe essere davvero lo scopo dei giochi richiamati in vita”.
In altre parole, l’intento del moderno padre delle Olimpiadi era quello di infondere, in questo rituale religioso antichissimo, anche uno slancio religioso comune che aiutasse i popoli a sentirsi accomunati. Questa, che Moltmann chiama religio athletae, risuonava ancora nel 1964, quando Avery Brundage, a lungo presidente del Comitato olimpico internazionale, in un’assemblea a Tokio si presentò come profeta di questa nuova religione: “Il movimento olimpico è una religione del XX secolo, una religione con pretese universalistiche, che unisce in sé tutti i valori fondamentali delle altre religioni; è una religione moderna, stimolante, viva, dinamica, che esercita una forte presa sui giovani (…) Qui non esiste alcuna ingiustizia di casta, razza, famiglia, denaro. Sul campo sportivo, ciascuno sta o cade in base alle sue prestazioni”.
Ma, come nota Moltmann, così non sono più i giochi olimpici ad essere organizzati in onore e in nome della religione, quanto piuttosto la religione viene adattata per far risaltare i giochi: ovviamente, si tratta di una religione senza Dio, che deve pertanto divinizzare l’uomo, delle sue possibilità, delle sue prestazioni; ma questo carica l’uomo di eccessive pretese e, persino, arriva, paradossalmente, a disumanizzarlo. Infatti, si chiede l’autore, se è innegabile che gli uomini necessitano di una religione, che cosa rimane di essa quando viene impiegata come mezzo per uno scopo? Proprio ciò che avviene allo sport quando viene, rischiosamente, strumentalizzato per fini politici.
Lontano da questi eccessi, però, ecco che lo sport, e i Giochi, che ne sono la sublimazione, l’esaltazione ai massimi gradi, diventano quello che dovrebbero sempre essere: la materializzazione della dimensione della libertà e della gioia. Sport e gioco sono consustanziali all’essere umano, perché in essi l’uomo testa se stesso, si mette alla prova, scopre le sue possibilità e limiti, e poi trova il suo atteggiamento nei confronti degli altri uomini e la sua “vita di comunione”: le Olimpiadi sono pertanto il preludio di una speranza di vita libera e piena, integralmente umana, per tutta l’umanità: allora sì, esse diventano simbolo di speranza, se viene esplicitato il loro valore di alternativa e preludio alla libertà rispetto a un’esistenza che per troppi, molti, è ancora dominata dall’oppressione in campo politico, sociale, economico; è questo il vero e autentico valore dell’olimpismo, ed è questo da ribadire perché tale manifestazione diventi sempre più volano di libertà e umanità.