In un’epoca di denso riflusso culturale come quella presente, nella quale si è pressati dalle contingenze della crisi economica e dalla crescente instabilità politica, pochi autori hanno goduto in vita della notorietà di Zygmunt Bauman (1925-2017). Una notorietà che ha oltrepassato di molto le aree accademiche e i circoli intellettuali per raggiungere il pubblico più vasto, fino a costituirsi come un riferimento di quello stesso mondo globale che questo sociologo e filosofo ha ampiamente esaminato.
Una tale corrispondenza tra Bauman e il grande pubblico non è stata affatto casuale. Questo sociologo polacco è apparso infatti a tutti come uno dei pochi lucidi interpreti delle tensioni contemporanee, capace di fornire cornici interpretative a misura di un presente sempre più oscuro e inquietante. In modo analogo ad altre personalità del panorama culturale degli ultimi vent’anni — da Beck a Giddens, da Touraine a Dahrendorf — Zygmunt Bauman si è impegnato in un’interpretazione della società post-moderna, analizzando fino in fondo il progressivo degrado di un soggetto lasciato sempre più solo dinanzi all’elemento cardine della globalizzazione che la distingue. Ma, diversamente dagli altri analisti sociali che si sono cimentati in percorsi analoghi pervenendo a concetti altrettanto chiarificatori, dalla “società del rischio” di Ulrich Beck alla “fine delle società” di Alain Touraine, Bauman ha fornito delle metafore interpretative — da quella estremamente nota della “società liquida” a quella altrettanto eloquente delle “vite di scarto” — capaci di collocarsi tra analisi e denuncia, tra descrizione dello scenario contemporaneo e segnalazione delle contraddizioni che ne bloccano lo sviluppo, facendo di lui uno dei rappresentanti più efficaci di una cittadinanza intellettuale militante.
Proprio per questo è stato tra i pochi ad essere letto anche quando i suoi testi non correvano sull’onda dei fatti di una cronaca esplosiva (come accade a Gilles Kepel) né tentavano una rilettura del processo di costruzione del mondo moderno (come è il caso di Alain Finkielkraut e di Rémi Brague), né ricostruivano analiticamente uno specifico processo di frammentazione sociale (come fa Cristophe Guilluy), né infine una specifica temperie culturale (coma fa Chantal Delsol). Zygmunt Bauman era e resta (perché la cultura, come dice Hannah Arendt, è la patria immortale degli uomini mortali) l’interprete della società globale attuale, dei rischi che questa comporta, così come delle introversioni che finiscono con il caratterizzare quanti si trovano a viverci.
Come tale è un osservatore del presente, colto nella sua immediatezza, più che un analista del percorso storico che lo ha generato e del quale lo stesso presente è l’esito. Proprio per quest’incombenza sul presente Bauman si è rivelato essere all’altezza di un desiderio generale di comprensione e di interpretazione generale di quanto accade oggi, fornendo cornici concettuali ampie, in grado di inquadrare il tutto. La sua morte rivela l’ampiezza di questa domanda globale che aveva trovato in lui un interprete efficace, assieme ad un militante dei valori condivisi e incontestabili che fondano la civile convivenza.
Bauman ha cercato di registrare l’ampiezza del mutamento in corso, rinnovando così uno dei cammini più consolidati della sociologia, quello di essere la scienza della crisi, della frattura dei legami sociali, del venir meno delle interpretazioni condivise del mondo e della vita. La sua morte permette di cogliere ancora di più l’ampiezza di una domanda di comprensione dell’oggi da parte di una società che non conosce più se stessa, né si avvede delle fratture profonde che si vanno scavando tra i diversi gruppi sociali e dove le classi dirigenti non sanno intercettare né comprendere le tensioni che attraversano la società che governano, né le paure che la percorrono.