C’è un capitolo, in Babel che ha attirato la mia attenzione. E quando, circa un anno e mezzo fa, a margine di un’intervista pubblica che mi era stata affidata, ho avuto la possibilità di parlarne direttamente con Zygmunt Bauman, mi sono soffermato proprio su quel capitolo: “Solitari interconnessi”.



La questione della solitudine nel contesto della Modernità mi pareva l’elemento centrale della riflessione di Bauman, non solo perché egli si è soffermato a lungo sulla questione della dissoluzione (“liquefazione”) delle comunità, dalla famiglia agli ambiti più estesi, ma perché tale rarefazione delle relazioni esistenziali è divenuta, nell’età della comunicazione totalitaria, rarefazione della narrazione.



Nessuno comunica davvero perché è imperante la paura. La delazione è sempre stata l’arma vincente dei fascismi novecenteschi. Dunque, inevitabile affrontare con Bauman la questione. Direttamente. L’idea che mi frullava per la testa, leggendo le sue opere, era che all’orizzonte si veniva profilando una sorta di neo-totalitarismo, di stampo affatto differente rispetto alle esperienze del Novecento. Una sorta di totalitarismo 2.0.

“La questione è molto interessante. Sì, il rischio è presente, anche se non dobbiamo pensare ai fascismi così come li abbiamo conosciuti. Si tratta di un fascismo antropologico, intrinseco, interiorizzato. Noi siamo fascisti di noi stessi”. Tra le mani avevo il mio Babel e subito ho pensato che la prima forma di fascismo stava proprio nella babele linguistica, nella mistificazione dei significati, nella liquidità della parola.



Qui volevo arrivare. Intendevo chiedergli proprio se dopo la società, dopo l’individuo, la liquidità non avesse colpito la parola stessa, togliendole qualsiasi forza, qualsiasi legame con le cose, con la realtà. E la parola liquida è davvero l’anticamera della perdizione. E siccome i linguaggi sono sedimento di tradizione e di storia, oltre che di geografia, la liquidità linguistica mi pareva il sintomo proprio della liquidità esistenziale dell’uomo contemporaneo.

In fondo la solitudine è innanzitutto segnata dall’impossibilità di raccontare, o peggio, nell’incapacità altrui di ascoltare.

Così si dipanava il pensiero e la liquidità, il suo geniale “modello”, prendeva forma, si solidificava — potremmo dire — non più nell’orizzonte sociologico, ma andava in profondità, diventava antropologico.

Credo di aver còlto la malinconia dell’uomo che comprende, che vede, che nella vecchiaia e forse anche nella prospettiva della morte, scuote la testa e  sa d’essere stato superato dagli eventi.

Fascismo 2.0, l’abbiamo chiamato: i connotati di tale nuova condizione umana stavano, per Bauman, innanzitutto nella forza della delazione. La comunicazione digitale è divenuta lo strumento principe di tale pratica. “Non servono più gli spioni. Ciascuno di noi è un delatore”. Cattura comportamenti, fragilità, errori. Crea nemici e li mette alla berlina di un pubblico esteso. Ma vi è ancora di peggio: “Ciascuno di noi è delatore di se stesso”, offre all’opinione pubblica un’altra categoria che, dopo Habermas, andrebbe reinterpretata, varchi straordinari per l’invasione della sfera privata. Siamo collaboratori convinti di questo nuovo fascismo. Ci mettiamo a nudo. Il mondo sa tutto di noi”.

Alla radice mi pareva di comprendere allora che la questione stesse in una sorta di liquidità etica (un’altra parola che ha subito slittamenti semantici tali da renderla quasi inutile a comprendere la portata della sua consistenza storico-culturale). Una parola (etica, morale) che Bauman avrebbe probabilmente rielaborato laicamente liberandola dalle secche del perbenismo per ridarle la forza e la radice dell’essenza dell’umano. Come dire che il bene e il male era scritto nel cuore dell’uomo, prima della sua liquefazione.

Su questo piano, due sono state, per Bauman, le novità: innanzitutto la presenza massiccia e ossessiva dello strumento tecnico, democratizzato, diffuso, prolungamento della nostra stessa corporeità. E proprio la mediazione digitale, la forza dell’oggetto, asettico, portatile, utilizzabile in ogni contesto, ha portato l’uomo a liberarsi dalla domanda decisiva: quel che faccio è bene o male? La cosa, l’oggetto, ha tolto di mezzo ogni domanda di senso. Siccome lo strumento mi consente (tecnicamente) di fare una cosa, allora — diceva Bauman — lo posso (moralmente) fare. La moralità dell’azione risiedeva insomma nella sua stessa possibilità di realizzazione.

Ma Bauman si soffermava su un altro aspetto: la velocità della liquefazione ormai vicina alla gassificazione. Il fattore tempo era una variabile decisiva perché non permetteva — nel suo ragionamento — prese di coscienza, verifiche empiriche, ferite da cui guarire, morti da cui risorgere. “Tutto va troppo in fretta, e noi non ci accorgiamo di esistere e, un giorno, di aver vissuto”.

La questione era per Bauman ovviamente innanzitutto culturale: possedere e illudersi di possedere. Costruire sulla roccia e costruire sulla sabbia. Così, paradossalmente, l’accesso all’infinità dei saperi ci ha reso più ignoranti anche se più reattivi ad estrarre un telefono per dare prima degli altri la risposta alla domanda sul tavolo.

“Chi è capace oggi di far diventare carne la parola?” si chiedeva Bauman in Babel. Ma perché questo accada, serve tempo, silenzio, pausa, ozio. La macchina ha assassinato il tempo. Serve un altro orologio esistenziale, che la macchina nelle sue gare a guadagnare nanosecondi nelle sue capacità di risposta, ha travolto.

La presunzione di possedere in pochi attimi il mondo perché archiviato in un taschino, ci ha reso così evanescenti da non sapere più chi siamo e perché siamo. “La liquidità non ha preso solo il pensiero, ha preso i nostri sensi, il nostro cuore”. Questo è il fascismo 2.0, di fronte al quale risulta quasi impossibile qualsiasi resistenza.

Il Novecento è davvero finito — ho pensato allora. E oggi che Bauman è morto, ne sono certo. Il Novecento è finito, perché nessuno sa più riconoscere il mondo dalla sua carne e dal suo odore.