“È un misero naufrago l’uomo che è approdato alle nostre coste, e dobbiamo curarcene: vengono da Zeus gli ospiti e i poveri; e un dono, anche piccolo, è caro”. Con queste parole nell’Odissea Nausicaa, la principessa dei Feaci, si rivolge alle sue ancelle, esortandole a prendersi cura di Odisseo, che si è presentato improvvisamente ai loro occhi: Nausicaa e le ancelle sono in spiaggia a lavare gli abiti e stanno prendendosi un attimo di riposo giocando a palla, quando improvvisamente compare Odisseo. Scampato a stento da un naufragio, Odisseo è finito nell’isola dei Feaci: dopo venti giorni trascorsi tra l’infuriare delle onde e dei venti, senza mangiare, completamente nudo e recando sul corpo i segni della sofferenza irrompe in mezzo al festoso giocare delle ragazze. Non è l’Ulisse “bello di fama e di sventura” di cui ci parla Foscolo: Omero è più realistico, qui Odisseo è un essere umano abbrutito e orrendo a vedersi, tanto che la prima reazione delle ancelle è quella di scappare disperdendosi nella spiaggia. Solo Nausicaa resta e le esorta a prendersi cura dello straniero in evidente stato di bisogno.
Il richiamo ai doveri nei confronti di questo sconosciuto si inserisce in una tradizione antica e diffusa, che fa dell’ospitalità un obbligo assoluto. L’ospite è sotto la protezione di Zeus e l’ospitalità crea un legame che supera anche le inimicizie della guerra. Nell‘Iliade si racconta di due guerrieri, Glauco e Diomede, licio e combattente nel campo troiano il primo e acheo il secondo, che nel pieno della battaglia attorno a Troia stanno per affrontarsi “smaniosi di combattimento”, ma, quando scoprono che i loro avi erano legati da un antico rapporto di ospitalità, non solo rinunciano ad affrontarsi, ma addirittura si salutano cordialmente e si scambiano doni.
Questa linea di comportamento è diffusa in tutte le tribù di lingua indoeuropea. Cesare e Tacito attestano che non vi è gente più ospitale dei Germani, che ritengono “sacri e inviolabili” (sancti) i loro ospiti, e notizie analoghe ci vengono date dei Celti, degli Slavi, dei Baltici, degli Indiani. A Roma il termine per “ospite” (hospes) contiene l’elemento poti, che significa “signore”, e la parola si ritrova nello slavo gospodi, che dal significato di “ospite” è passata a quello di “signore”.
Chiaramente, quando si parla in modo generico di mondo greco-romano si concentra sotto un’unica etichetta una stratificazione di epoche e orientamenti culturali molto complessa. Le due tendenze che si fronteggiano sono da una parte la percezione dell’appartenenza e la valorizzazione della propria identità, dall’altro l’accoglienza e l’interesse per culture diverse. Nel mondo greco abbiamo da una parte la sottolineatura identitaria che porta alla creazione della polis, la città-stato nella quale il cittadino riconosce una tradizione e ideali comuni, dall’altra l’elaborazione di tesi cosmopolite che percorrono diverse correnti della filosofia ellenistica, a partire dal momento in cui le conquiste di Alessandro Magno permettono alla Grecità di espandersi in un orizzonte ben più ampio di quello in cui la cultura greca aveva avuto la sua culla.
Anche nel mondo romano si ha una evoluzione analoga. All’inizio Roma è un piccolo borgo di Latini. Il riconoscimento della propria identità porta a una progressiva idealizzazione, per cui la figura del cittadino romano, del civis Romanus, rappresenta come una sintesi degli elementi positivi che contraddistinguono l’essere umano e diviene la spinta per l’impegno morale a realizzare nel mondo la filantropia, che non è un concetto astrattamente filosofico, in quanto a Roma si traduce in un processo di creazione di norme giuridiche e di garanzie per la civitas, l’ambito di chi condivide questa storia comune: essere cittadini non è solo un dato di fatto giuridico, è la convinta accettazione di una identità. Per questo l’estensione della cittadinanza prima alle popolazioni circostanti del Lazio e dell’Italia antica e poi via via a tutte le regioni dell’impero può anche essere letta in una prospettiva di accoglienza in una storia comune, e così viene vista nel mondo tardo-antico tanto da poeti pagani come Rutilio Namaziano (“Hai fatto una patria comune a partire da genti diverse; giovò a popoli senza legge l’essere conquistati dalla tua dominazione, hai reso città quello che prima era un mondo”) quanto da pensatori cristiani come Agostino d’Ippona (“Accadde che la città dominatrice offrisse alle genti sottomesse non solo il giogo, ma anche una lingua unitaria, così da avere la pace della società”).
Nel 48 d.C. l’imperatore Claudio pronuncia in senato un importante discorso per perorare la concessione della cittadinanza romana alla Gallia Comata. Il discorso è riferito in modo molto ampio dallo storico romano Tacito, e ne abbiamo anche una copia epigrafica nel Museo Gallo-romano di Lione. Claudio sottolinea come Roma abbia sempre svolto una politica di progressiva integrazione fin dalle origini: lui stesso ha origini sabine, e molte importanti famiglie che sono state protagoniste della storia romana venivano da diverse regioni del Lazio, e poi dall’Etruria, dalla Lucania e via via da tutte le regioni dell’Italia. In sostanza Roma ha realizzato concretamente sul terreno gli ideali di cosmopolitismo vagheggiati dalle filosofie ellenistiche. Da sempre quella romana è una società multietnica, in cui lo straniero può essere accolto, e persino il nemico dichiarato e tradizionale, come il cartaginese, può essere visto come una figura positiva e umanamente apprezzabile: così avviene in una commedia di Plauto (il Poenulus) rappresentata a Roma nel periodo più acuto della crisi tra Roma e Cartagine. Chi viene accolto non rinuncia per questo alla propria identità. Il cristianesimo, che fin dall’inizio ha un respiro culturale che pone come proprio orizzonte l’ecumene, il mondo intero, può costruire sulla base di questa eredità culturale un modello di grandi potenzialità. L’esperienza dei regni romano-barbarici e poi il progressivo passaggio verso il mondo medioevale ne fornisce l’esempio.
Quanto detto finora naturalmente non è che la rapida sintesi di una vicenda culturale complessa e articolata che non cessa di avere riflessi e di interrogarci anche oggi. I discepoli non avrebbero chiesto a Gesù “Chi è il mio prossimo?”, se il rapporto con l’altro non avesse anche aspetti problematici. L’insegnamento di Gesù è radicale, e sembra eliminare la stessa linea di demarcazione che distingue il prossimo dal non prossimo: “Amate i vostri nemici, benedite coloro che vi maledicono, fate del bene a coloro che vi odiano, e pregate per coloro che vi maltrattano e vi perseguitano” (Mt. 5,43). Paolo ci ricorda (nella Lettera ai Galati) che dopo la venuta di Cristo “non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù”. Ma l’essere umano è condizionato dal peccato originale, e anche l’annuncio cristiano non può automaticamente eliminare difficoltà e pregiudizi insiti nell’uomo. I capitoli iniziali degli Atti degli Apostoli mostrano che anche nella Chiesa primitiva esistevano lacerazioni e incomprensioni.
Papa Francesco quasi quotidianamente ci ricorda che per il cristiano solidarietà e accoglienza non sono valori fini a sé stessi, perché richiamano e sono richiamati da un valore più alto. Il cristiano è tenuto a sfamare l’uomo, ma ricordando che la fame dell’uomo è anzitutto fame di eternità: una solidarietà che dimentica questo anelito non è condivisione fraterna, ma ideologia. La solidarietà cristiana ha in sé un qualcosa “in più”, perché avere un atteggiamento fraterno e solidale verso il prossimo significa rendere presente Cristo in mezzo agli uomini.