Il termine fiducia, secondo il grande etimologo Giacomo Devoto, deriva, come la parola fede, dalla radice bheidh, largamente attestata nelle aree italica e greca. Da questa radice deriva anche la parola foedus, che vuol dire patto.
Termini corrispondenti, tutti derivanti da tale comune radice, circolano anche in altre lingue europee: faith, foi eccetera. A questa massiccia presenza linguistica non sembra tuttavia corrispondere una familiarità con il significato di tale termine. Oggi fidarsi è difficile. Patti se ne fanno, ma sembra difficile avvistare l’intimo nesso fra il patto e la fiducia. Fidarsi è forse sempre stato difficile, ma tanto più oggi, in assenza di riferimenti forti a livello veritativo, etico e istituzionale. Fidarsi: tale atto implica nella sua struttura che l’io, la persona, il soggetto, o come vogliamo chiamarlo, rinunci a un dominio, a un controllo del suo rapporto sia con se stesso sia con gli altri.
Su questo tema è intervenuto di recente il filosofo Salvatore Natoli, il cui stile di ricerca è misurarsi sempre con i grandi nodi del pensiero. In un denso ed incisivo libretto, Il rischio di fidarsi (Il Mulino, 2016) Natoli mette fuoco le peripezie della fiducia come esperienza radicale dell’umano. La fiducia viene individuata come una struttura, una sorta di cinghia di trasmissione della razionalità. Senza il fidarsi infatti il piccolo d’uomo non potrebbe sopravvivere e crescere e lo sviluppo del suo percorso non può sostenersi su un compiuto dominio di sé e dei suoi rapporti ed azioni. È pur vero che il fidarsi implica il rischio di una perdita, il rischio di perdere, ma d’altra parte senza tale rischio non è vivibile una vita umana che implica, per sua natura, i legami sociali. L’autore dettaglia i vari aspetti soggettivi ed anche reciproci del fidarsi, tutto imperniati sulla idea di affidabilità: ad esempio mi fido di chi merita la mia fiducia, di colui dal quale mi aspetto un contraccambio, di chi considero amico. Nell’amicizia l’avere fiducia “sembra possedere un che di incondizionato: qui il fidarsi è un affidarsi, perfino un consegnarsi” (p. 59).
Un altro aspetto di questa relazionalità suscitante la vita della persona riguarda il fine degli atti, ed anche l’aspettativa di una fecondità del bene. D’altra parte in questa prospettiva i legami sociali ospitano, nelle loro strutture, posizioni e dinamiche varie e contradditorie; virtù e vizi, corruzione e malvagità ed anche condizionamenti politici in cui si sempre si esercita una fiducia, tra cui sembra oggi di particolare importanza il problema dell’informazione.
Un’altra dimensione sottolineata da Natoli è il rapporto della fiducia con il tempo. “Ci si impegna, sotto certe condizioni, nel presente, ma per qualcosa il cui adempimento accadrà nel futuro e che senza questo impegno non sarebbe neppure concepibile” (p. 140). La fiducia, da questo punto di vista, è “quel credere che guarda al futuro alla luce di una promessa ricevuta in passato” (p. 141). La fiducia, così intesa, si chiama fede. Questo modo del credere è proprio delle tradizioni religiose. La tradizioni religiose hanno apportato un sostegno alla fiducia perché hanno portato un senso. Un senso implica una certa signoria sul tempo e quindi una forma di salvezza: salvezza dal nulla di senso e dalla distruzione.
Nelle tradizioni religiose questa modalità di credere è oggettivamente un appartenere, soggettivamente un aderire. Nella società secolarizzata in cui viviamo le appartenenze si attenuano a causa dell’azione livellante e segregante della strutture capitalistiche che necessitano di esseri umani individualisti e asserviti ai ritmi di produzione delle grandi centrali finanziarie e tecnocratiche. Si attenua perciò nella persona il senso della mancanza, della sproporzione fra sé e un compito che lo supera, in qualche modo concepito come trascendente e unificante: salvo che nei fondamentalismi odierni che prendono la scorciatoia di un Dio dispotico oggetto di un’ideologia che assorbe il senso della mancanza, dell’altro, della morte.
Nella tradizione ebraico-cristiana, indisgiungibile dalla vicenda della cultura occidentale, la fiducia è ancora attiva, anche se in mille modi censurata, nella forma della preghiera. Preghiera, nel linguaggio cristiano, è una supplica legata al desiderio e al perdono (p. 150).
La forma ebraico-cristiana del credere implica il coinvolgimento di un Dio con l’umano, fino all’evento della sua manifestazione: dal Roveto ardente di Mosè a Gesù di Nazareth. A partire dal fatto di essere amati da tale Dio “Il cristianesimo ha modellato una modalità del fidarsi altrimenti non concepibile. Il tratto fondamentale del cristianesimo — la sua essenza — risiede nella proclamazione del Risorto” (p. 155). Non si tratta di una filosofia o di un evento fra i tanti, ma dell’Evento salvifico unico della storia: la remissione dei peccati e soprattutto la vittoria definitiva sulla morte. “Il cristianesimo annuncia qualcosa che non è nell’ordine delle possibilità umane e proprio per questo può essere solamente creduto. Il cristianesimo annuncia qualcosa di inattendibile e per questo in esso la fiducia assume una estrema radicalità che si distacca dai modi abituali del fidarsi… tra fede — quella cristiana — e ragione si disegna così una discontinuità: non si tratta tanto di un’opposizione, quanto di una diversa dis-locazione. La fede infatti non può essere sottoposta alle prove della ragione naturale e perciò stesso non è irrazionale ma — come per altro pretende essere — è sovrarazionale: è un salto (p. 156).
Nella fede si gioca questa partita: accettare come plausibili promesse che la ragione sogna, ma non è nelle condizioni di realizzare: il trionfo definitivo sul male, la cessazione del dolore, la sconfitta della morte. “Tutto ciò non contraddice affatto le esigenze umane, anzi vi corrisponde: e allora perché non crederci? … L’annuncio cristiano trova una sua plausibilità perché viene incontro a un naturale bisogno di salvezza, non è razionalmente giustificabile — e nella sua configurazione originaria non pretende neanche di esserlo — ma promette ciò che è desiderabile… i secoli cristiani non sono una astrazione, sono esistiti e la fede nella patria celeste ha permesso agli uomini non solo di attendere in speranza l’eterna beatitudine, ma di vivere, in forza di questa stessa fede, le fatiche del tempo, di sopportare i mali presenti” (p. 157).