La macchina di produzione cinematografica hollywoodiana è ultimamente a corto di idee e sempre più orientata a rimasticare i classici o a dare ulteriori puntate di film di successo (tutti i supereroi, le guerre stellari e non stellari…). Si tratta di film sempre più inzeppati di effetti speciali, di azione spasmodica, di ininterrotti colpi di scena, tanto da risultare persino noiosi. Questo perché di tutti i linguaggi che costituiscono un film, tra recitazione, immagine, musica, parola, quest’ultima è la più trascurata; tanto che ciò che essa porta, soprattutto contenuti e fascino della storia, si è impoverito in modo impressionante, per l’angustia di idee, soggetti e sceneggiature. 



È forse il sintomo di una generale decadenza degli americani, come mostrano le recenti vicende politiche, l’ansia guerrafondaia che non li abbandona, lo stato degenerato delle loro città, la violenza crescente, insensata e strisciante di cui molti sono fautori e vittime. 

Per questo suscita un certo stupore la comparsa di un film che, benché americano, ambientato in America, incentrato sulla lingua e la letteratura americana, di americano sembra avere ben poco. Si tratta di Paterson, del regista Jim Jiarmusch, con protagonista Adam Driver, il Jedi Oscuro di uno degli strascicati sequel di Star Wars. La storia è quanto di più feriale si possa immaginare: il protagonista è un conducente di autobus, che vive con la moglie, o la compagna (il film non lo chiarisce) in una cittadina di provincia, Paterson appunto, piccola, decadente, con strade poco pulite, fili dell’alta tensione che penzolano sulle strade di un centro poco storico, zone industriali dismesse e abbandonate. E si chiama Paterson anche lui, come la città. 



La storia è quanto di più ordinario ci sia: viene rappresentata, giorno per giorno, una settimana della vita dei due protagonisti. Non ci sono pistolettate, non inseguimenti in macchina, né cadute da grattacieli: Paterson si alza tutte le mattine alla stessa ora, fa colazione, va al deposito comunale degli autobus, lavora tutto il giorno, la sera porta il cane a spasso e si ferma per una birra al bar. Chiacchiera con sua moglie, ascolta casualmente i discorsi dei passeggeri o degli avventori del bar. I personaggi sono sempre gli stessi, la location pure. Ciò che di imprevisto accade è che lui scrive poesie. Su un taccuino che ha sempre con sé scrive i versi che gli vengono in mente durante la giornata, mentre sta già al volante dell’autobus aspettando il segnale di inizio corsa, o durante la pausa pranzo, sbocconcellando un sandwich. L’ispirazione può venire da ovunque: una particolare scatola di fiammiferi, la forma delle nuvole, il pensiero della sua donna.



E questo è il cuore del film: anche nell’esistenza più comune la bellezza fa capolino. È solo una questione di capacità di scorgerla e farne memoria: ecco il mestiere del poeta, dell’artista in genere, secondo il film: appuntarsi la bellezza, riscoprire di avere un’anima, persino se si vive la vita più piatta del mondo. 

Non solo: durante la storia, si viene a scoprire che Paterson è una città dalla profonda memoria poetica, una piccola Recanati made in Usa: è la città di William Carlos Williams, un classico del Novecento, e Allen Ginsberg, esponente della leggendaria beat generation, ci ha trascorso del tempo; si parla di tanti poeti, persino Petrarca (c’è molta Italia nel film). E poi le persone che vengono in contatto con il protagonista, sono spesso artisti quotidiani, nascosti ma ispirati, come lui: dalla moglie che si scopre essere una pittrice originale, al cantautore rap incontrato nella lavanderia pubblica. 

È un viaggio, insomma, alle sorgenti della bellezza, in cui si scopre che la bellezza dell’uomo è dappertutto e che la sua anima infinita vive anche nei luoghi più semplici e meno apparentemente poetici.