L’estate fredda, una storia di mafia di Gianrico Carofiglio (Einaudi, Torino 2016), scorre veloce, quando si comincia a leggerla non si vorrebbe più smettere. Il personaggio principale è il maresciallo Pietro Fenoglio, che va nella pinacoteca di Bari quando ha bisogno di riflettere, è una figura che emana non solo intelligenza, ma soprattutto bontà. La storia è intensa, ma di essa non vogliamo parlare a lungo per non togliere la tensione e la curiosità al lettore. Già dalla quarta di copertina si sa però che un bambino, figlio di un boss della mafia, è stato rapito ed ucciso. 



Il contesto storico è l’anno 1992, quello degli attentati della mafia contro i magistrati Giovanni Falcone (maggio) e Paolo Borsellino (luglio). Un anno tragico per la giustizia in Italia, ma che “ha segnato l’inizio della fine per la mafia dei corleonesi” (Carofiglio nella nota storica finale al romanzo). 



Perché la figura del maresciallo Fenoglio emana bontà? “La verità delle persone si legge nelle sfumature” e la sfumatura più fine del maresciallo è che sa ascoltare e farsi piccolo. Il tema ricorre continuamente nel romanzo. “Non prendere un’indagine come l’occasione per dimostrare che sei più bravo degli altri, si ripeteva spesso. È una delle ragioni — forse la principale — per cui si commettono gli errori più gravi, con innocenti dentro le sbarre e criminali in libertà”. Farsi piccolo permette di evitare gli errori più grandi e ti dona un atteggiamento non aggressivo nei confronti del reale. “Il problema è che vorremmo controllare tutto: un’idea stupida, inutile e dannosa”. 



Il romanzo presenta due donne. Serena, la moglie “assente” di Pietro Fenoglio, ha bisogno di una pausa di riflessione sul proprio matrimonio. Solo alla fine essa riappare con una telefonata e con una domanda: “mi aspetti?”. L’omicidio di Paolo Borsellino e della sua scorta le fa dire: “Non c’è speranza”, ma il marito le risponde che non è vero. Bontà e speranza sono legate intimamente. Per questo è certo che la speranza non è finita, neppure con l’omicidio di due grandi magistrati. La telefonata dura a lungo e Fenoglio “ascoltò soprattutto. La cosa che sapeva fare meglio”. 

L’altra donna è Gemma D’Angelo, il magistrato, che tra l’altro conduce l’indagine riguardante un mafioso che ha deciso di collaborare con la giustizia, Lopez Vito. È responsabile dei verbali. La frase già citata: “la verità delle persone si legge nelle sfumature” è riferita a lei. Decide di andare di persona ad indagare un criminale, che nessuno sospettava, sebbene ciò non fosse d’obbligo per il magistrato: “Se l’indagine finisce in un binario morto come è probabile, la responsabile sono io, non i carabinieri che stanno lavorando con me”. È una sfumatura in cui si vede quella bontà del farsi piccolo, del farsi servizio. “Fenoglio pensò che non aveva mai stimato tanto un magistrato”.  

Un tema che dà un tocco di profondità geniale al romanzo è quello dell’astrazione, della irrealtà dei luoghi e del linguaggio quando non sono più espressione di quella bontà ultima, quel bene ultimo che è la realtà stessa. Quando il maresciallo e il suo aiuto arrivano in un luogo dove vi è stata una sparatoria mafiosa e in cui non trovano nessuno, questo luogo viene definito come un “altrove indecifrabile. Astratto. Ecco era quello l’aggettivo giusto. Astratto”. Questo quartiere della sparatoria mafiosa era “come tante allucinate periferie del mondo, un luogo astratto”. Grazie a un cane e alle sirene dei carabinieri, che rompono il silenzio, questo mondo irreale “riprese un minimo di precaria concretezza”. 

Il linguaggio stesso può diventare astratto ed irreale o surreale. Può accadere con esso ciò che Italo Calvino chiamava il “terrore semantico” — per esempio quello di tanti verbali di polizia, quando evitano “le parole di significato comune e concreto perché chi scrive vuole inconsciamente sottolineare di essere su un piano superiore alle cose materiali di cui gli capita di occuparsi”. Questo “piano superiore” è invece pura astrazione, irrealtà. 

Anche se la “critica” (ai carabinieri, allo Stato…) può essere a volte molto pesante, Fenoglio non perde mai il senso della concretezza della giustizia e dello stato di diritto. Vi sono collusioni, anche all’interno delle forze dell’ordine, “zone grigie” che non sono evitabili nel mondo reale, in cui l’applicazione pura della “sola legge” non è sempre possibile. Ma nel mondo di essere di Fenoglio o della D’Angelo non vi sono autoassoluzioni. La nota “autoassolutoria” delle confessione dei criminali: “ho sgarrato ma ho dei princìpi”, viene presa nel mirino dal narratore, proprio perché la “verità delle persone si legge nelle sfumature” e non è vero che “una cosa è rapinare le puttane, un’altra sequestrare le persone per bene”. 

Infine, il male. La parola “Anticristo” appare due volte nel romanzo, in una fase decisiva degli eventi. Lo nomina il criminale che Fenoglio va cercando per risolvere il caso dell’uccisone del bambino rapito. L’estate fredda non è solo una connotazione meteorologica, ma il nome dell’indagine: “Volevo dire: Estate fredda. Il nome che mi stava chiedendo (Fenoglio aveva chiesto alla D’Angelo un nome da dare all’operazione). Sarà davvero difficile dimenticarcela”. Un’estate fredda in cui si è brutalmente confrontati con l’astrazione e la “banalità del male”.