“Tutto quel che proviene dal Sud sarà chiamato grottesco dal lettore del Nord, a meno che non sia grottesco, nel qual caso verrà chiamato realistico”.

Questa era Flannery O’Connor, acclamata come la migliore scrittrice americana di racconti. Chissà cosa ci avrebbe regalato se una malattia non se la fosse portata via all’età di trentanove anni, nell’agosto del 1964.



Spesso presentata dalla critica come cinica, la O’Connor si limitava a cogliere e rappresentare la realtà nel suo compiersi più bizzarro, filtrato dalla lente di acuta osservatrice, laureata in scienze sociali.

Le sue storie prendono forma nella quotidianità della Georgia, i personaggi quasi mai particolarmente profondi o sfaccettati, spesso semplici, a volte limitati. La realtà si compie loro malgrado. Proprio in questo si manifesta la grandezza della sua scrittura: un evento banale diventa dramma, uno sciocco si trasforma in eroe tragico, la spietatezza umana è come un evento atmosferico in natura, terribile ma inevitabile. Un fulmine non si può fermare. E il lettore si tramuta in spettatore di un finale a sorpresa. 



La particolare abilità della O’Connor si concentra nel mostrare la disparità tra la limitatezza dei personaggi, che non comprendono il proprio destino, e il suo compiersi.

In uno dei suoi racconti più famosi (A good man is hard to find) la concatenazione di eventi totalmente casuali porta l’intera famiglia, nonna compresa, a una brutta fine. Ci si trova a elencare, con il senno di poi, tutte le decisioni apparentemente innocue che hanno portato a quel risultato, anche la sosta nel diner a quell’ora, o la svolta a destra invece che a sinistra su una strada non familiare. Tutto, anche la memoria fallace della nonna che porta sul percorso sbagliato, ha la gravità di una condanna.



Gli eventi ordinari con cui si aprono i racconti acquisiscono complessità in corso d’opera, come la palla di neve diventa una slavina sotto gli occhi del lettore.

Un banale vaso di geranio sulla soglia di una finestra nasconde la metafora di una vita, come nel caso del vecchio Dudley (il protagonista nel racconto The Geranium) che, dopo aver scoperto che il geranio è caduto di sotto, torna a guardare fuori dalla finestra come ogni giorno, imprigionato nella sua sedia e nel suo stordimento senile. Non sta a lui cogliere il significato del geranio che finisce con le radici all’insù perché il finale è sempre tutto per il lettore e non per congedare un personaggio a fine corsa.

Sullo sfondo, spesso ma non sempre, le differenze tra bianchi e niggers, una normalità a quell’epoca, una nota dolente ancora oggi. 

Le violenze e le sopraffazioni vengono illustrate come fossero fatti di cronaca, senza alcun giudizio da parte dell’autrice. Anche nel narrare certe bassezze dell’uomo la O’Connor mantiene alto un suo registro poetico, un risarcimento per lo stupore provocato da certe storie. Come disse Elizabeth Bishop parlando dei libri della O’Connor, erano pieni di brevi descrizioni e frasi e intuizioni che ne facevano vera poesia più di tanti poemi messi insieme. 

Nativa di Savannah (Georgia), Flannery O’Connor ottiene un Master of Arts in Inglese presso il rinomato Iowa Writer’s Workshop. Il direttore dell’epoca, Paul Engle, ammise anni dopo di aver avuto problemi nel comprendere Flannery quando parlava per via del suo dialetto georgiano. Tanto era incomprensibile sentirla parlare quanto era piacevole leggere la sua prosa ricca di inventiva, dura e viva.

Dopo l’Università di Iowa, dove aveva iniziato a lavorare al suo primo libro (Wise blood), la O’Connor si trasferisce in una comunità di artisti (Yaddo) nello stato di New York (1948). Sono questi gli anni in cui viene in contatto con diverse personalità del mondo letterario americano, newyorchese in particolare. Tra gli altri Robert Giroux, che diventerà in seguito suo editore riconoscendole un’estrema flessibilità di visione riguardo alla propria scrittura e alla capacità di revisionare e migliorare un racconto. Scrivere e scrivere, questa era la vita di Flannery che aveva trovato il giornalismo, al quale si era inizialmente iscritta, riduttivo e poco creativo.

“Ne scrivo il nome con onore, per tutta la verità e la maestria con cui ha mostrato la caduta e il disonore dell’uomo” scrisse il poeta Thomas Merton dopo la sua morte. Perché alla fine la O’Connor scrisse sulla realtà senza invenzione.