Dopo aver soggiornato per qualche giorno sull’effimera ribalta dei mezzi di comunicazione, la scelta del termine post-truth (post-verità) come “Word of the Year” da parte dell’Oxford Dictionaries sembra già entrata nel ripostiglio di una realtà tutta concentrata sul “presente”, sull'”ultim’ora”, sul “tempo reale”. Ci si potrebbe perfino chiedere se proprio questa parola sia rimasta vittima di se stessa, se dunque appartenga al dominio che vorrebbe indicare: quale “verità” può indicare la post-verità? Come può simile parola (peraltro non nuova, nonostante il suo marcato affermarsi nel 2016) significare qualcosa che viene smentito nel momento stesso in cui si afferma? Se, come lo stesso dizionario di Oxford dichiara, l’aggettivo post-truth (il fatto che si tratti di un aggettivo deve attirare la nostra attenzione) si riferisce a “circostanze in cui, per la formulazione di un’opinione, i fatti oggettivi sono meno importanti rispetto alla mozione degli affetti e alle convinzioni personali”, occorre allora interrogarsi non soltanto sul valore e l’importanza che una nozione come quella di “verità” (indipendentemente dai contenuti) può avere all’interno della nostra esperienza, ma anche sulla relazione che intratteniamo con essa, sui nomi che le diamo, sulla posizione che le attribuiamo nelle piccole grandi scelte che compiamo in ogni istante.
Si comprende con facilità come il dominio principale in cui il termine viene usato sia quello politico: è, infatti, nell’agire socio-politico che il problema della verità riverbera con particolare intensità il legame che intreccia con la decisione, la responsabilità, il dovere civile. E sarebbe facile, troppo facile, a questo punto, abbandonarsi ad una laudatio temporis acti nostalgicamente abbarbicata a non meglio precisate epoche in cui la solidità del sapere e dei valori garantiva ordini e funzionamenti oggi perduti, magari dimenticando che già le antiche regole della retorica classica prevedevano che, nelle orazioni, si facesse affidamento sull’emotività dei destinatari invece che sulle regole del discorso logico per orientare scelte e decisioni: oggi, fake-news e web-bufale, catene “virali” di trasmissione e credulità mediatica investono direttamente il modello antropologico sorto insieme ai nuovi mezzi di comunicazione e trasmissione che invadono le nostre giornate e che, a dispetto della promessa di socialità implicata dalla connessione (stay tuned è il nuovo imperativo categorico), mostra invece un inquietante incremento di quella solitudine che si vorrebbe abbattere (basta entrare in un vagone del metro e osservare la massa di solipsisti con gli occhi incollati sul display dei vari supporti, tutti connessi con il mondo ma forse nemmeno troppo sicuri di sapere dove si trovano).
E dunque proprio la “novità” (new è un altro dei prefissi curiosamente speculari al prefisso post) introdotta dal web si direbbe superare se stessa in direzione di un “oltre” — è questo, infatti, il significato più preciso del prefisso post, che non si riferisce ad un imprecisato “dopo” temporale, ma riguarda lo sganciarsi del presente da qualunque riferimento — di cui la “verità” (comunque la si voglia intendere) è la prima vittima.
Ma, anche in questo caso, forse chi si stupisce di quanto sta accadendo dimentica che nella storia dell’uomo proprio la nozione di “verità” è sempre stata, tra tutte, la più incerta e vulnerabile: processata dalla storia, deformata dalle ideologie, curvata in ogni direzione dai sistemi filosofici, brandita come un’arma da supposte inconfutabilità scientifiche, utilizzata come strumento per legittimare esclusioni e persecuzioni, la “verità” — presunta, narrata, creduta, dimostrata, sperata, negata, e così via — non si dà mai astrattamente, conclusa e muta come un asteroide orbitante nello spazio, ma si scioglie nella storia fino a rendersi impercettibile e pronta a sfidare chiunque voglia cercarla.
Da qui, vale a dire dall’enigma o dal mistero che la struttura, il nostro rapporto con quanto crediamo essere la verità, un rapporto che si costituisce come domanda, esigenza, ricerca e anche, o forse soprattutto, come ingiunzione che reclama lo smascheramento dei tentativi di strumentalizzarla.
La cosiddetta “post-verità”, in fondo, contraddice se stessa e, in un certo senso, si annienta o, meglio, si condanna a quel silenzio che vorrebbe infrangere con la sua urlata e virale presenza: dissolta nel nebuloso chiacchiericcio della doxa (che, secondo gli antichi Greci, si contrappone alla “verità”) perde se stessa e presto nessuno ne avvertirà più l’esigenza (o la nostalgia). E chissà se nella giostra dei social media prima o poi qualcuno invocherà un ritorno della verità, dopo il “post-” che l’ha accompagnata per chissà quanto tempo: dobbiamo allora prepararci alla “post post-verità”, lungo una catena virtualmente interminabile di cui più che i consapevoli esecutori siamo le inconsapevoli vittime.