C’è chi fa canzoni che piacciono, che entrano nelle orecchie e sbancano subito, ma durano quanto possono durare, e infatti muoiono presto, perché la Moda – ce l’ha insegnato Leopardi – è sorella della Morte; e c’è chi invece, come Luigi Tenco, scrive canzoni che arrivano lontano lontano, e cinquant’anni dopo rimangono conficcate nel cuore, non muoiono più. Era l’inizio del boom economico, e Tenco già raccontava nella Ballata della moda che con un po’ di pubblicità non solo ci indurrebbero a bere perfino un'”acqua blu”, ma ci lascerebbero anche dire “me ne infischio della moda”, mentre man mano ci abituiamo e alla fine crepiamo intossicati di quell’acqua blu che è diventata l’unica bibita che ci piace.
In un mondo che beve le canzoni che gli fanno bere, uno come Tenco – che è all’origine della canzone d’autore italiana – appare tanto fuori tempo all’epoca di Andiamo a comandare quanto lo appariva al tempo di Cuore matto: ma proprio per questo appartiene così tanto al suo e al nostro tempo. Le sue non sono canzonette orecchiabili: allungando i versi e modellandoli su fraseggi da sax, ti costringe a pensare a ogni parola, con un linguaggio diretto, che anziché volare nel blu dipinto di blu scende al cuore incandescente dei problemi. “Non ho trovato ancora il mio posto nel mondo”, cantava questo ragazzo che parlava poco, sorrideva di rado e non nascondeva le sue idee:
Un giorno dopo l’altro il tempo se ne va:
le strade sempre uguali, le stesse case.
Un giorno dopo l’altro, e tutto è come prima:
un passo dopo l’altro, la stessa vita.
E gli occhi intorno cercano quell’avvenire che avevano sognato,
ma i sogni sono ancora sogni e l’avvenire è ormai quasi passato.
Eri lì tranquillo per sentire una canzone, e dalla prima nota ti ritrovi messo a nudo nella deludente monotonia dei giorni, in cui le speranze ti abbandonano come la nave che “ha già lasciato il porto e dalla riva sembra un punto lontano” (Un giorno dopo l’altro). Ti stai emozionando pensando ai segni lasciati sulla sabbia da una coppia che guarda passare una vela: e poi? cosa rimane? “Ricordo di noi soprattutto la vela che a un tratto sfiorò il nostro amore: era bianca, e dopo un momento io la stavo cercando ma non c’era che il vento” (Quasi sera). Forse è così, va via tutto, c’è poco da sperare: “Un giorno dopo l’altro la vita se ne va, e la speranza ormai è un’abitudine”. Rimani disarmato da tanta intensità, come quando leggi Pavese.
“Quanta fatica per farsi accettare con le canzoni, al mio amico Tenco non gli han fatto vedere neanche i limoni”: sono parole di Enzo Jannacci, che con lui aveva suonato il piano in una canzone intitolata Tempo dei limoni. Ci vuole tempo, il tempo che in genere il mercato della canzone, e il gusto della gente, non danno: “Se non è ancora il tempo dei limoni li assaggi e dici che non sono buoni, ma se tu aspetti il loro tempo arriva poi il momento in cui li troverai dolci come li vuoi”. Ed è il tempo giusto, questo mezzo secolo che ci separa dal traumatico colpo di pistola a Sanremo del 27 gennaio 1967: “Com’è difficile, bambina mia, com’è difficile veder finire tutti i miei sogni in un bicchier d’acqua, senza neanche aver visto il mare”. È proprio la sincerità con cui esprime la sua “aria triste” a fare, delle canzoni di Tenco, barche su cui attraversare la vita senza buttare a mare i grandi ideali:
Ragazzo mio, un giorno ti diranno che tuo padre
aveva per la testa grandi idee
ma in fondo poi non ha concluso niente:
non devi credere no, vogliono far di te
un uomo piccolo, una barca senza vela;
ma tu non credere no, ché appena s’alza il mare
gli uomini senza idee per primi vanno a fondo.
Vale la pena riscoprire le canzoni di chi non è andato a fondo, proprio mentre “i tuoi amici ti diranno che basterà trovare un grande amore e poi voltar le spalle a tutto il mondo”, mentre senti “dir dalla gente che al mondo stanno bene solo quelli che passano la vita a non far niente” (Ragazzo mio). Tenco ci ricorda che la vita stride, ed entra disarmato nelle ombre dell’esistenza, magari con la sequenza di infiniti di Ciao amore ciao: “in un mondo di luci sentirsi nessuno”. Ci troviamo inchiodati all’incompiutezza di tante sere:
Quando la sera me ne torno a casa
non ho neanche voglia di parlare:
tu non guardarmi con quella tenerezza
come fossi un bambino che ritorna deluso.
Sì, lo so che questa non è certo la vita
che hai sognato un giorno per noi.
Il fatto è che bisogna essere davvero sinceri per ammettere che noi non ci bastiamo, e per desiderare un cambiamento. Quando vogliamo bene, possiamo intuirlo: “Mi fa disperare il pensiero di te e di me che non so darti di più” (Vedrai vedrai). Non è il vertice dell’amore, accorgersi che tu meriteresti infinitamente di più di tutto quello che io riesco a darti?
Se potessi, amore mio, ti darei tutto quel che vedo,
ma posso darti solo quel che ho io e purtroppo non è gran cosa.
Se potessi, amore mio, vorrei essere un grand’uomo,
saperti amare come una regina, ma purtroppo son quel che sono (“Se potessi, amore mio“).
In mezzo a tanta “gente che sorride” non si sa di cosa, “tu non volevi, tu cercavi qualcosa che non hai, che nessuno ti dà” (Tra tanta gente). Che cos’è che non sappiamo darci? In un suo dattiloscritto, una struggente intuizione: “Tu non hai capito niente e mi parli di noi, quando in mezzo a noi c’è un vuoto che non finisce mai. Io cerco nei tuoi occhi un calore che non c’è”. Più ascoltiamo Tenco, più sale quell’indicibile struggimento che lui ha saputo dire. E ci passa l’illusione di riempirlo da soli, e ancora di più ci viene da aspettare che arrivi il “bel giorno” in cui tutto “cambierà”, quando saremo consolati dalla paura di aver pianto invano.