A Rigopiano i vigili del fuoco e i volontari hanno lavorato per giorni in modo eroico e commovente, esponendosi ad un rischio elevatissimo data l’allerta valanghe al massimo grado: è stata una carità silenziosa e potente, fatta di pale e di gelo, di scavi sotto la neve che continua a cadere e la minaccia di nuove valanghe che rischiano di prodursi.



Dinanzi a tutto questo la vignetta di Charlie Hebdo, oramai notissimo settimanale parigino di satira a tutto campo dedicata proprio alla tragedia di Rigopiano, è arrivata come una vera e propria doccia gelata per il suo abissale cattivo gusto. Dopo le squallide vignette sul terremoto del 24 agosto, gli eredi della sinistra al caviale di Charlie Hebdo hanno rivelato ancora una volta la deriva di una tradizione culturale che oramai si è persa nella nebbia. Chi per giustificarli, ricorda che la satira, per essere tale, deve essere libera da qualsiasi vincolo, dimentica la caratteristica essenziale di questa tradizione espressiva: quella di irridere il potere facendosi beffe dei potenti, o comunque di burlarsi di chi detiene una posizione pubblica, fonte di successo e di popolarità. È proprio il detenere una tale posizione che consente di resistere allo sberleffo irriverente, alla vignetta villana e mordace, magari replicando con armi altrettanto raffinate, quando non addirittura ricorrendo in tribunale denunciando l’offesa.



Cosa diventa la satira quando si comincia a irridere non più chi detiene il potere, ma anche chi non ce l’ha? Cosa resta della satira quando si sbeffeggiano le fasce deboli della società: dai malati in ospedale agli immigranti sui barconi, da chi è colpito da un handicap a chi è seppellito dalle macerie di un terremoto o di una valanga? Dire che i morti meritano rispetto non vuol dire ossequiare una morale desueta, bensì esercitare quella capacità propria degli umani che si chiama compassione. Compassione per chi non si conosce, ma del quale si percepisce il dolore e quello dei suoi cari. 



Non riconoscere i morti e non rispettarli implica il separarsi dai principi umani condivisi, il chiamarsi fuori da quel tessuto comune, semplice ed immediato al tempo stesso, che fonda la concreta consistenza umana. Si tratta di valori primi, assoluti e indiscutibili, valori che fondano la società e che Charlie Hebdo, in nome del diritto di satira, semplicemente non vede. È la possibilità di non vedere l’altro, di non intuire l’ampiezza del dolore, è la possibilità di schivare la compassione e quindi di non compatire che rende possibile una tale “satira”.

Ironizzare su delle catastrofi, ridere delle vittime, rivela così una prospettiva culturale che ha perso il senso stesso della vita e, proprio per questo, si incammina mestamente e in modo incontrovertibile verso il proprio stesso tramonto. 

Resta allora da chiedersi come tutto ciò si sia realizzato. Quale percorso scosceso abbia condotto i redattori del settimanale a precipitare così in basso, ignorando quell’umana pietà che è la fonte di ogni civiltà possibile, fino a convincerli di poterla disperdere nelle nebbie di un relativismo che, in realtà, è sempre più improbabile e sempre meno sostenibile. 

Si consuma nella redazione di Charlie Hebdo una deriva consistente di quello stesso individualismo autoreferenziale che è al centro della nostra società moderna. Il prezzo che ogni redattore di Charlie paga è allora quello della sua strutturale solitudine. Separandosi da qualsiasi empatia, da qualsiasi dolore condiviso, lascia che la sua stessa umanità scivoli nell’ombra. Infatti solo non vedendo l’altro nel suo dolore è possibile riderci sopra; solo ignorando il reale della sofferenza che l’altro vive, solo passando accanto ad un umano che non si sa più vedere, si può disegnare la morte, si può avanzare nella nebbia di Rigopiano e perdervisi, scambiandola per una giornata di pieno sole sulle piste da sci, e ridere.