Sul terrorismo islamista, dopo le vicende di Anis Amri e gli sviluppi in Siria, sconcerto e paura prevalgono perché il nostro sguardo su quanto sta accadendo è sfuocato e incerto è il nostro criterio di giudizio sui fatti. Domenico Quirico ne Il grande califfato (Pozza, 2015) ci viene in soccorso proprio su questa duplice esigenza.



Si è presi da una grande amarezza nel leggere che i giovani della primavera siriana incontrati dall’autore ad Aleppo fossero altra cosa da quelli delle banlieues parigine e delle capitali europee accorsi in sostegno al califfato di Abu Bakr al-Baghdadi per combattere in Siria. Questi uccidono “senza collera, con indifferenza, semplicemente perché possono farlo, come il terremoto o l’alta marea”: è il jihadismo europeo, composto di giovani “che hanno vissuto tra noi e con noi” nelle nostre belle città europee, “gente di fede e di coltello”. Tutti in uniforme, il barracano nero lungo fino ai piedi, la bandana sulla fronte con scritto “Non c’è altro Dio che Dio”, con la classica bandiera nera in una mano e in pugno nell’altra il Kalashnikov. Invece i giovani oppositori di Assad non volevano la guerra come prospettiva infinita e senza tempo, non cercavano la palingenesi di un mondo di puri e di perfetti ma l’affermarsi — secondo Quirico — di condizioni di vita più giuste nelle quali essere padroni del proprio destino nella propria terra. Scrive Quirico: “Noi abbiamo, con la nostra indifferenza, accettato che Bashar manovrasse fra i suoi oppositori: guerra senza quartiere ai laici, ai ribelli della prima ora, mano larga con gli altri, gli islamisti, gli stranieri. Erano, sono la sua garanzia, la sua pubblicità perfetta: io combatto per voi, smemorati dell’Occidente, i miei avversari sono i vostri, guardatevi attorno, coloro che cercano di sgambettarmi sono quelli che vogliono poi venire a sgozzarvi nelle vostre belle case, domani dopo che si saranno sbarazzati di me”.



Ma veniamo ad Abu Bakr al-Baghdadi, il fondatore del Daesh, califfo e capo carismatico. Come è stato possibile che un anacronistico califfato esercitasse un fascino così grande, soprattutto verso i giovani europei? Si parla di oltre 9mila foreign fighter (combattenti stranieri) provenienti da Francia, Gran Bretagna, Germania, Belgio e anche Italia. E’ recente la notizia secondo la quale le autorità tunisine avrebbero fermato alle proprie frontiere ben 12mila giovani pronti ad andar a combattere per lo stato islamico, per al Baghdadi, uomo colto, laureato, teologo sunnita nato in terra sciita. Quest’uomo — a differenza di Bin Laden o di al Zawahiri o di Abu al Zarqawi, che dovevano nascondersi per non esser braccati o traditi — quest’uomo che si cela non per necessità, ma per scelta, sostiene Quirico, è l’uomo più seguito e obbedito dai giovani combattenti ed è il più ammirato nelle banlieues francesi e nei quartieri belgi.  



Qual è stata la sua genialità? Quella di aver osato ergersi a capo di tutti i credenti dell’islam, cosa che né Bin Laden né lo stesso Gheddafi avevano osato fare. Al-Baghdadi ha capito che in epoca di globalizzazione occorreva un richiamo planetario all’identità islamica e quindi al jihad che andasse oltre le singole nazioni musulmane, oltre le vecchie classi al potere, oltre i governi corrotti che le recenti primavere arabe non erano riuscite a spazzare via.

In ciò che è il simbolo del califfato, cioè l’uomo in nero bendato che tiene in  mano un coltello pronto a sgozzare un altro essere umano, Quirico legge il manifesto del califfato: “E d’improvviso degli esseri umani diventano carnefici dell’Altro, l’impuro, l’infedele”. Se la categoria di “nemico” in quanto “incarnazione del male” è entrata ormai tra i criteri di  comprensione della modernità, è pur vero che cominciamo a realizzare come questo principio interpretativo sia molto di più che una chiave di lettura semplicemente socio-politica. Infatti se da Hannah Arendt in poi abbiamo imparato che identificare un nemico comune porta a compattare un popolo, un gruppo, ora qui c’è di più che il semplice noi contro loro; in quel noi c’è un io che vuole eliminare nell’altro il tu, ciò che lo costituisce essenzialmente. E’ il male antico che portò Caino ad uccidere suo fratello Abele e che porta oggi l’uomo moderno a negare il proprio destino uccidendo, in questa parola, la stessa parola Dio. Quirico non a caso pone la a dell’Altro con la maiuscola. Non siamo di fronte a sottigliezze linguistiche, ma ad un piccolo segno della grande sottile barbarie che viviamo anche noi, popoli occidentali, affetti da iper-individualismo in cui l’io è anestetizzato ovvero — come dice papa Francesco — subisce la globalizzazione dell’indifferenza (“Sono forse io il custode di mio fratello?”). “Noi e l’altro: quante volte l’ho visto in azione questo ingranaggio, nell’ex Jugoslavia, in Ruanda…” (Quirico).

Un grande monito viene da questo libro, a noi cui piace “un islam modernizzato, relativo, tiepido come le nostre fedi, in fondo domato e irrilevante”, a noi cui piace immaginare un mondo musulmano così come ci viene dipinto dalla “propaganda della maggior parte dei mass media occidentali che penosamente ci descrive i jihadisti rozzi, pastori, analfabeti o marginali semidelinquenti che userebbero la fede che non conoscono per fini di potere”. E’ ora piuttosto di interrogarsi su cos’abbia portato tra le braccia dell’ideologia jihadista migliaia di giovani europei: “Ci illudevamo di sedurli. E’ come se noi avessimo rovinato qualcosa in loro (…) Forse una speranza che non era mai stata vera ma allo stesso modo dava sostegno. Nel loro destino c’è stato, qui, tra noi, uno strappo. Sono purtroppo figli delle nostre omissioni e della nostra viltà”: cioè delle mancate politiche di integrazione o della mancata testimonianza di una fede bella e operosa, capace di distogliere i giovani dalle sirene del materialismo consumistico e del nichilismo gaio. Proprio come il cardinale Scola ha detto nella festa del protomartire Stefano: “annunciate con più vigore e meno complessi Gesù Cristo, che non ha aspettato migliori condizioni storiche ma ha posto nella storia un soggetto nuovo”.