La scena del Natale di Cristo è stata una delle più grandi fonti di alimentazione della tradizione iconografica sul filo dei secoli. Unico ne era, ultimamente, il registro di fondo: celebrare il paradosso della grandezza di Dio racchiusa nell’umile segno di un essere chiamato a nascere, a vivere e a morire in modo esattamente analogo a quello di ogni altro fratello uomo. Ma il tema si prestava a essere declinato secondo una molteplicità inesauribile di accenti e sottolineature. Inoltrandosi nel cuore dei tempi moderni, l’arte fiorita nel grembo della cristianità medievale si è piegata sempre più decisamente nel senso di un realismo che esaltava il dialogo tra l’ordine soprannaturale e la redenzione dell’universo creato, mettendo al centro la promessa di giustizia e di felicità per l’uomo concreto, che inizia la sua avventura sulla terra, a contatto con il mondo della natura. Il Rinascimento è stato l’alba già solidamente delineata di questo ripensamento in chiave cristiana dell’intero che si tiene connesso nella totalità delle sue parti costitutive.



La rappresentazione della regalità divina capovolta nel povero teatro della stalla di Betlemme. L’adorazione dei pastori. La visita dei Magi. La sacra conversazione nel cerchio ancora più ristretto della Sacra Famiglia, o la sua sintesi estrema che è l’icona della Madre di Dio che ostenta, tenendolo vicino a sé per accudirlo e nutrirlo, l’infante generato dall’eccellenza del suo corpo mirabile: tutti questi punti di vista tra loro intrecciati erano sguardi diversi che consentivano di esaltare l’amore infinito del Padre piegato sulla carne della vita dell’uomo per venire incontro al suo bisogno con il dono della compagnia del Figlio, dilatata fino a farle assumere la materialità di una fisica sembianza mortale. 



La preminenza indiscussa era riservata al segno luminoso del Cristo neonato o comunque in tenera età. Cardine ispiratore del suo primato era il principio secondo cui il Verbo che esisteva da prima del sorgere del mondo e per mezzo del quale tutto era stato creato si è “fatto carne” ed è venuto “ad abitare in mezzo a noi”. La vicinanza totalmente gratuita del Dio onnipotente non poteva essere resa percepibile in altro modo che passando attraverso il mistero dell’incarnazione: Dio salva veramente l’uomo in quanto si è fatto lui stesso come noi, con tutte le implicazioni che questo di per sé ha comportato, se lo si vuole intendere alla lettera, e non solo come metaforica allusione per far incontrare l’uomo e Dio semplicemente giustapponendoli, mantenendo Dio a un piano così estraneo ed elevato da rendere impossibile ogni interscambio sostanziale. Non per niente “volle venire” e piantare la sua tenda mezzo agli uomini Colui che si sarebbe anche potuto “accontentare di aiutarci”, dall’alto della sua potenza celeste, senza esporre al rischio dello scontro con le libertà umane la sua forza d’imperio e la sua sovranità misericordiosa. 



Ciò che è interessante rimarcare è che l’intuizione della teologia tradizionale, riformulata nel linguaggio della spiritualità monastica di san Bernardo, non si è dissolta nelle fasi successive della storia del mondo cristiano. In particolare nell’arte dell’Occidente, cuore dello sviluppo che ha portato alla proliferazione della civiltà europea degli ultimi secoli, l’esigenza di fare spazio alla ricaduta terrestre dell’evento della salvezza ha trascinato verso l’enfatizzazione dell’innesto del divino nella carnalità dell’umano: l’abisso dell’Assolutamente Oltre ha attutito la vertigine della sua distanza riassumendosi nel frutto prodigioso del ventre benedetto della Vergine Immacolata. Il vero miracolo stava nell’equilibrio dei due estremi: l’Alterità sovraumana di Dio, da una parte, e dall’altra la trasparente sacramentalità della forma in cui essa si è calata affidandosi al sì di Maria.

Per tenere insieme gli opposti, l’arte rinascimentale si è fatta appassionatamente devota della storicità, della densità umana e della perfetta carnalità di Cristo vero Dio, e allo stesso tempo vero uomo. Per questo è un bambino in tutto simile a qualunque nato da donna che ha cominciato a dominare l’iconografia del presepio, quanto meno da Giotto in poi. Per dovere di fedeltà al presupposto teologico del “Verbum caro factum est”, gli artisti si sentivano in obbligo di rappresentarlo non solo nell’apoteosi della sua trionfale epifania trinitaria, ma anche nella commovente intimità familiare dell’allattamento e del generoso servizio materno. Ignorando i diaframmi di separazione del pudore innalzati dal successivo diradamento della sobria franchezza umanizzata del sacro cristiano, non hanno temuto di rivestire il divino con le più povere vesti del veicolo umano con cui il divino aveva scelto di identificarsi. Per questo Cristo appare nello specchio delle immagini come una gracile creatura indifesa. Per questo se ne sta raccolto tra le braccia accoglienti della madre che lo ha messo al mondo. Per confessare la fede nella piena umanità di Cristo disceso in terra per rigenerare l’uomo, ancora nel Quattrocento e per tutto il Cinquecento non si aveva nessuna remora a raffigurare i contorni del suo inerme corpo minuto spingendosi fino a una nudità che arrivava facilmente a essere totale. Lo si faceva, è ovvio, non per assenza di rispetto. Al contrario, per una tensione di confidenza amorosa, nello slancio di una disponibilità traboccante di attaccamento affettivo rivolto al Redentore dell’uomo.

Uno specialista di storia dell’arte tra Medioevo e maturo Rinascimento, Leo Steinberg, ha richiamato l’attenzione sul fatto che persino la scena dell’adorazione dei Magi spesso non si limitava a mettere in risalto la divinità di Cristo mostrando l’omaggio dei rappresentanti delle nazioni del genere umano, ma puntava a ribadire la fiduciosa accettazione di una maestosità divinità resa sorprendentemente speciale dal suo combinarsi con la pienezza di una fisicità umana accolta fin nei suoi connotati più inequivocabilmente realistici, compresi quelli della caratterizzazione del corpo di Cristo-bambino con i segni eloquenti della genitalità maschile.

Nell’adorazione dei Magi del Ghirlandaio, del 1487, oggi alla Galleria degli Uffizi, gli illustri visitatori venuti da Oriente non si piegano soltanto devotamente in ginocchio davanti al Bambino che sono venuti ad onorare. Uno di loro si protende indiscretamente in avanti fin quasi a toccare con le mani il corpo di Gesù tenuto fra le braccia di Maria e lo scruta da distanza ravvicinata, in atto di scrupolosa ispezione, per verificare de visu il carattere pienamente e carnalmente umano del neonato che si trova di fronte. Non era esagerata anomalia eccentrica, visto che scene simili si ritrovano in altri dipinti a sfondo natalizio della stessa epoca e il motivo risulta poi replicato in modo fedele per esempio in un’altra adorazione dei Magi, del 1564: quella di Pieter Bruegel il Vecchio (National Gallery).

Anche qui uno dei Magi si inchina nel gesto di elargire il suo dono prezioso al piccolo bambino, avvolto da un candido velo che lo lascia però esposto alla visione degli astanti. Abbassato con il volto alla medesima altezza del corpo del divino bambino, lo sguardo del donatore è tutto concentrato, da una distanza ravvicinata, nella contemplazione delle fattezze di Colui che si mostra come segno umano a cui rendere omaggio. La straordinarietà sta dentro la perfetta normalità di un bambino identico a ogni altro, che nella sua carne porta l’esplicito sigillo di una volontà di condivisione destinata a sfociare, dopo l’annuncio premonitore della circoncisione e della strage degli innocenti, in un’altra e tutt’altro che dolcemente pacifica offerta: quella del corpo maturo del Cristo adulto, immolato per la salvezza di tutti sul duro patibolo del Golgota.