“Le parole, già./ Dissolvono l’oggetto.” Anche se di solito ce ne accorgiamo solo in alcuni momenti culminanti, questi versi di Caproni raccontano un’esperienza che per tutti noi è quotidiana: la caccia per approssimazione a dire quel che vogliamo dire senza sapere mai bene né cosa sia, né come dirlo. Con l’impressione, anzi, che tanto più urgente sia l’oggetto del nostro dire, tanto più le parole con cui cerchiamo di catturarlo e dirlo lo dissolvano, invece di comunicarlo, di “metterlo in comune”.
Pensiamoci un attimo: se le parole, i nomi, fossero così univoci e inequivoci, perché nel tempo gli uomini di ogni latitudine avrebbero sentito l’esigenza di affiancarvi gli aggettivi, di coniugarvi accanto dei verbi, cioè delle azioni, per indicare non che cosa una parola dice, ma che cosa “”fa”, e quando e come lo fa? E perché le preposizioni — dove lo fa? In, con, su, per, tra, fra? —, perché gli avverbi (un altro “come”: tanta-mente? poca-mente? stanca-mente?)… Perché inventare, cioè “trovare” (dal latino invenio), tutte quelle che da bambini ci hanno insegnato a chiamare parti del discorso e che oggi, sempre meno avvezzi al discorso, via via ci abituiamo a maltrattare e dimenticare?
Perché la grammatica è un’esigenza del linguaggio, tanto quanto il linguaggio è esigenza dell’uomo. Ed entrambi hanno, come Caproni intuiva, un nesso profondo con un altro bisogno innato, quello della verità. Anzi: per sgomberare il campo da equivoci, non diciamo, per adesso, verità, ma diciamo certezza, oggettività. Ce ne accorgiamo un po’ di più in queste settimane, dove — diversamente cavalcato da interessi contrapposti e da “disinteressati” tentativi di soluzione (quelli di cui ben diceva Eliot, “guardami dal nemico che ha qualcosa da guadagnare/ e dall’amico che ha qualcosa da perdere”) — ha tenuto banco in quel che resta del dibattito pubblico il tema della post-verità.
Nato quasi sottotraccia e a poco a poco assurto — come sempre più spesso avviene — a tema-feticcio su cui chiunque deve necessariamente dire la sua, l’argomento ha virato ultimamente, nelle sfere medio-alte di Bruxelles e dell’Antitrust, sull’opportunità di istituire un controllo terzo delle affermazioni fatte circolare pubblicamente. Cioè, nel migliore dei casi, l’ennesima authority senza autorità coercitiva, né tanto meno autorità morale, che decida che cosa è vero e cosa non lo è; nel peggiore, squadriglie di nazi-talkers che pattugliano i bar sport di paese dileggiando chiunque osi dire che tra la Juve e i cinesi, ci ha perso Witsel. Nel frattempo Google, che di autorità coercitiva invece ne ha da vendere perché controlla realmente l’informazione — e lo fa da una posizione dominante per cui nessun sacerdote del liberismo si straccia le vesti — annuncia che sta prendendo in carico il problema e che ne terrà conto nella rimodulazione del suo algoritmo di ricerca.
Ovvero, traducendo in linguaggio della strada, quando cercheremo qualcosa con il suo motore di ricerca, questo tenderà a restituire in alto i risultati conformi al fact-checking di Mountain View, sui cui criteri — mi si conceda un po’ di diffidenza — nulla ci è dato di sapere.
E allora, che fare? Restare fermi nell’inazione? Non opporre nulla alla proliferazione di false notizie? Questo no, senz’altro. Ma nemmeno, ancora, lasciare che sia il potere a decidere di che cosa dobbiamo preoccuparci e come dobbiamo preoccuparcene. Cerco tra i miei numi tutelari e una soluzione possibile la leggo: personale, popolare, quotidiana e anche un po’ gerarchica. Perciò difficilissima e invisa tanto all’attuale assetto del potere, quanto a tutti noi che infinite volte lamentiamo patemi ma odiamo chi ci procura possibili soluzioni quasi più di chi ce li infligge.
Educazione alla poesia. Fatevene, anzi facciamocene, una ragione, perché anch’io che la pratico da più di vent’anni non riesco mai a crederci fino in fondo. Tuttavia, facciamocene una ragione. La poesia, l’educazione alla sua lettura, è la sola praticabile soluzione che permetta di offrire alla singola persona gli strumenti per arginare la lotta eterna e interminabile tra le parole e le cose, tra l’essere e la sua percezione, tra la percezione e la sua rappresentazione. Un passo di Ezra Pound — che molte cose fu, ma non certo quel bizzarro vecchio incompiuto che oggi piace ricordare — lo dice bene, spiegando anche perché l’attuale insegnamento della poesia è non soltanto inutile allo scopo ma, peggio, nocivo e perverso.
Leggiamo da Come bisogna leggere (1927 ca.) e scopriamo così anzitutto quale non è la funzione della poesia: “Non è la coercizione o la persuasione per via emotiva, né l’intimidire o il forzare la gente all’accettazione di un dato complesso, o di sei dati complessi di opinioni, in contrasto a un altro dato complesso (o mezza dozzina di complessi) di opinioni“. Che cosa riguarda invece? “Essa riguarda” prosegue Pound “la chiarezza e il vigore di ‘qualsivoglia’ pensiero e opinione. Riguarda la preservazione della pulizia stessa degli strumenti, la salute della sostanza stessa del pensiero“.
Una cosa molto seria, insomma, troppo seria e troppo importante per lasciarla in mano non solo ai decisori e legislatori, ma anche ai poeti, delle cui mancanze Pound non si dimentica, ricordando anzi come “quando il loro lavoro degenera — e con ciò non voglio dire quando esprimono pensieri indecorosi — ma quando il loro stesso strumento: l’essenza stessa della loro opera, l’applicazione della parola alla cosa, si corrompe, cioè diventa torbido o inesatto, o eccessivo e rigonfio, allora tutto il meccanismo del pensiero e dell’ordine sociali e individuali va in malora“.
Si capisce che qui si va ben al di là, anzi su un diverso piano qualitativo, rispetto all’ammirazione istituzionale e dovuta alla “cultura”, al “bello”, alla “lettura” e a tutte le altre sciocchezze che politica e programmi scolastici ci ammanniscono di continuo. Qui si tratta di educare al gusto del discorso — del fare un discorso e di ascoltare un discorso, di coordinare e subordinare pensieri gli uni agli altri — di educare al godimento estetico di ciò che si dice e di come lo si dice. Si tratta, usando le parole di Eliot, di “ripulire il dialetto della tribù”, di usare la vita e l’arte per quello che sono, un pellegrinaggio e la sua mappa, come ancora Pound, ne L’artista serio (1913), ci ricorda: “La bellezza dell’arte ricorda all’uomo ciò che vale la pena di fare. […] Anche tutto questo chiasso sulle divinità ricorda all’uomo che c’è qualcosa che vale la pena di fare. La satira gli ricorda che certe cose non vale la pena di farle. E l’induce a riflettere sul tempo sprecato“.
Qualcosa che vale la pena fare, il desiderio innato di non sprecare il tempo. È davvero di questo che parliamo, quando parliamo di bufale su internet?