Niente grazia per i preti pedofili. Papa Bergoglio è stato categorico nel suo recente discorso a braccio, riportato dall’Ansa, in aggiunta al testo predisposto per i membri della Pontificia Commissione per la Tutela dei Minori, incontrati giovedì 21 settembre 2017. Una presa di posizione radicale che non ammette repliche, e si accompagna all’autocritica sul grave ritardo della Chiesa nel merito della condanna di questo “peccato orribile”. Il Papa ha definito la pedofilia una malattia: “una vecchia malattia” di cui ancora qualcuno si ostina a non voler prendere coscienza, aggiungendo che “quando la coscienza arriva tardi anche i mezzi per risolvere i problemi arrivano tardi”.



Il Papa che ha da poco firmato la prefazione al libro La perdono padre (edizioni Piemme) di Daniel Pittet, il cinquantottenne friburghese che fu abusato dai 9 ai 13 anni da un frate cappuccino, non ha alcuna paura di scoperchiare il vaso di Pandora, certo com’è che proprio il coraggio di guardare in faccia il problema coincide con l’inizio dell’opera di guarigione. Un atteggiamento il suo che molto assomiglia a ciò che serve per iniziare una cura psicoanalitica: l’umiltà di ammettere con un altro una crisi, una fragilità, un sintomo o un disturbo delle proprie condotte di cui intimamente ci si vergogna e il coraggio, assieme all’ambizione (all’inizio inconsapevoli) di venirne a capo.



Tecnicamente si chiama consapevolezza di malattia, uno dei fattori, assieme alla genuinità della sofferenza (o del dis-piacere) e a un certo grado di imputabilità delle proprie condotte — anche di quelle patologiche — che un terapeuta deve saper valutare accogliendo una richiesta di cura. In assenza di consapevolezza di malattia si scivola lentamente (oppure si precipita) nella follia. Mentre giustificando, rinnegando e misconoscendo lo stato di malattia ci si inoltra vieppiù nella perversione. Una delle categorie diagnostiche proprie della psicoanalisi che uniscono in un unico atto valutativo il giudizio clinico e quello morale.



Se infatti la malattia troverà sempre nel terapeuta un atteggiamento non giudicante, favorevole a intravedere anche nelle condotte patologiche del malato una qualche forma di ragionevolezza — il paziente ha sempre (una sua) ragione, anche nel peggio —, nulla vieta all’analista di apprezzare (fino al compiacimento) la presa di iniziativa del paziente, che finalmente, rotti gli indugi, accetta l’avventura della cura. È così che avviene l’ingaggio reciproco tra paziente e analista su cui si fonda, in buona parte, la possibilità di riuscita di una cura.

All’opposto, rimanendo invariato da parte del terapeuta l’atteggiamento non giudicante e la disponibilità a valutare ogni richiesta di cura anche da parte del soggetto afflitto da perversione, nessuno sconto potrà essere fatto a un atteggiamento personale connotato da censura volontaria o da un’attitudine al rinvio talmente sistematica da sconfinare nell’inedia e nell’accidia, che come noto non sono delle virtù.

Il malato si trova a fronteggiare qualcosa che gli appare più forte di sé e si sente per questo travolto dalla patologia, non di meno egli resta pienamente responsabile (meritevole o negligente) delle iniziative attuate, oppure omesse, per contrastare il problema che lo affligge. In primis quella di curarsi con l’aiuto di chi per primo non abbia avuto paura di guardare da vicino le proprie ombre e i propri lati oscuri. È questo il senso della formazione di un terapeuta che, da Freud in poi, è debitrice soprattutto all’analisi personale. Un’esperienza non surrogabile dallo studio o dalla formazione accademica.

Vero o falso che sia, il mito di San Giorgio ben si presta a rappresentare il rapporto inverso tra iniziativa e paura. Nell’iconografia tradizionale colpisce infatti la possanza del Santo sull’aitante destriero e la pochezza del drago, a significare che le proprie paure diminuiscono in ragione della determinazione con cui le si affronta. In caso contrario invece esse giganteggiano fino a scoraggiare ogni autentica messa in gioco: “è più forte di me, non ci posso fare niente”.

Per pronunciare il suo peculiare non possumus a proposito della grazia ai preti pedofili, Papa Bergoglio non si è appoggiato a nessuna impalcatura teologica, né a sottili — quanto insidiose — distinzioni tra clinica e morale, psiche e spirito che non sembrano appartenergli, ma a una semplice osservazione pratica: non expedit. Non conviene, perché chi ne è fatto oggetto “ci ricasca”.

Il no del Papa oltre che pienamente evangelico — “il vostro dire sia sì, sì; no, no, il di più viene dal maligno”( Mat. 5,21-37) — è una diga per la difesa della Chiesa dalla perversione. Una patologia poliedrica nei confronti della quale il Mondo non ha grandi difese, ma neppure la Chiesa — anche quella post conciliare — sembra avere sviluppato anticorpi sufficientemente robusti.