La vicenda in corso attualmente nella penisola iberica, ovvero il confronto tra l’irredentismo nazionalista catalano e la rivendicazione del proprio perimetro istituzionale da parte dello stato spagnolo post-franchista, nonostante alcune avvisaglie già palesatesi nel contesto del vecchio continente (dalle disgregazioni statuali nell’Est dopo il crollo del Muro di Berlino, sino al più recente referendum separatista scozzese), e al di là dei vari e pure contrastanti posizionamenti assunti sul conflitto in atto tra Madrid e Barcellona — “tifoserie” in molti casi travalicanti i tradizionali orientamenti ideologici destra-sinistra, che restituiscono piuttosto una polarità “glocalizzata”, sull’asse centralismo vs periferie —, colpisce soprattutto per il vasto stupore mediatico che sta suscitando. Certamente i recentissimi fatti di ordine pubblico verificatisi in occasione della consultazione referendaria hanno suscitato molto scalpore, riportando nell’immaginario comune le lancette della storia ad epoche fosche di repressione civile, o nel migliore dei casi al clima di delegittimazione di imperi e stati colonizzatori prodotto dal nation state building ottocentesco con le conseguenti rivendicazioni di sovranità da parte di diversi popoli europei, come l’italiano, il tedesco, il polacco e l’irlandese.
Eppure la spinta separatista basca, e in particolare blaugrana, è cosa piuttosto antica e nota, intesa prevalentemente quale fenomeno politico-sociale oscillante tra comportamenti particolaristici tutto sommato “normalizzati” nella forma dell’autonomia statutaria (si pensi semplicemente alla genesi delle regioni a statuto speciale nell’Italia repubblicana, ad esempio il caso valdostano su cui mi sono soffermato anche recentemente e spinte indipendentistiche sino ad oggi percepite però alla fine in modo non molto dissimile dal leghismo italico e fenomeni consimili).
A tal proposito, un caso di indipendentismo forse maggiormente avvicinabile a quello catalano (e indubbiamente ancor più agli aspetti maggiormente cruenti del nazionalismo basco), e che nella coscienza europea non si è forse pienamente impresso pur chiamando in causa quella che si suole definire la “madre” di tutte le democrazie, ovvero il Regno Unito, è quello nordirlandese. A differenza della Scozia, l’Irlanda ha ottenuto una sua indipendenza subito dopo la fine della prima guerra mondiale, con un processo di separazione da intendersi a cavallo tra il principio rivoluzionario e la mediazione politica (Collins, De Valera… ); ma l’Eire non è riuscita a compiere (come vorrebbe persino la sua Costituzione) in pieno il processo di acquisizione della propria sovranità nazionale rispetto alla totalità del territorio naturalmente disegnato dall’insularità dell’Irlanda, lasciando aperto così uno spazio di tensione individuato prima al negativo, quale territorio non “repubblicanizzato”, e poi con la definizione di un preciso perimetro istituzionale (le cosiddette “Six Counties” dell’Ulster devote alla Regina), con la conseguente nascita dell’Irlanda del Nord in seno al Regno Unito.
La vicenda dei Troubles nordirlandesi, che almeno in Italia sino a pochi anni fa era ancora tutto sommato poco conosciuta, e spesso relegata dai media nazionali alla sola vulgata ufficiale della Londra thatcheriana stigmatizzante quasi esclusivamente il ruolo terroristico dell’Ira, presenta indubbiamente qualche linea di contatto con quanto recentemente si sta realizzando intorno a Barcellona, tenuto comunque sempre conto delle differenze culturali — là si è trattato (e si tratta) di una questione etnico-religiosa tra due comunità non integratesi in via paritaria in un progetto di stato unitario intorno a Belfast o nel principio di adesione (lealtà) alla corona britannica; in Spagna è in atto piuttosto una rivendicazione di indipendenza di una comunità sostanzialmente unita contro lo stato “centrale”.
Lo prova comunque il fatto stesso che i principali artefici della lotta separatista della comunità repubblicana nordirlandese si siano spesso interessati della vicenda catalana, con particolare empatia evidenziata pure in chiave pubblica, ed ora stiano reagendo con dichiarazioni ufficiali a questo forse estremo passaggio della crisi iberica. Lo ha detto chiaramente il leader storico del Sinn Fein, Gerry Adams, in un suo recente articolo sul Guardian, denunciando le modalità di intervento con la forza adottate dal governo madrileno, e considerandole controproducenti rispetto ad una possibile soluzione della diatriba istituzionale con la Catalogna, tanto quanto la propria esperienza politica a Belfast ha detto rispetto alle violente reazioni della Ruc, la polizia nordirlandese, alle manifestazioni inizialmente pacifiche della comunità cattolica.
Da quell’atteggiamento intransigente di Londra negli anni Settanta, infatti, riprese vigore l’attività paramilitare dei movimenti nazionalistici repubblicani, e Adams oggi paventa una non dissimile conseguenza anche nella penisola iberica. E da lì nasce il richiamo del leader del Sinn Fein ad una “regia” internazionale per governare il conflitto istituzionale, una regia che dovrebbe a suo dire assumere responsabilmente l’Unione Europea, la cui mancanza durante i decenni tragici dei Troubles, sempre a suo avviso, ha molto contribuito al perdurare del conflitto con il suo carico di vittime e dissesto socio-economico nel paese. E un altro aspetto del conflitto di Belfast di cui secondo Adams il governo di Madrid dovrebbe oggi tenere conto per non ripetere errori passati, è quello relativo alla mancanza di disponibilità al dialogo manifestata dal suo punto di vista dai governi di Downing Street, soprattutto da Margaret Thatcher; una rigidità che si è concretizzata principalmente nella imposizione di “preconditions” da parte del governo britannico, che a suo avviso hanno giocato “a negative part in preventing dialogue and mediation”.
Una lettura, questa, che esprime la buona intenzione di Adams di disegnare una ricomposizione pacifica della conflittualità iberica, e che comunque parte dal presupposto che una forma di indipendenza dello stato catalano la si dovrà alla fine riconoscere, e quindi dà ultimamente per scontata la rinuncia al pieno esercizio della propria sovranità da parte della Spagna nella questione. Basti considerare gli esiti scientifici di un recente convegno di studio organizzato a Belfast dal Public Diplomacy Council of Catalonia (Diplocat), insieme all’Institute of Irish Studies della Queen’s University, risalente al maggio scorso, sul tema “Stateless nations of the European Union in the shadow of Brexit: Catalonia, Northern Ireland and Scotland”: un eventuale voto congiunto negativo su Brexit da parte di Scozia e Irlanda del Nord sarebbe stata una via democratica per mantenere i due stati britannici all’interno dell’Ue, e intensificare la propria autonomia, un processo a cui anche la Catalogna avrebbe così potuto guardare con interesse, in vista della realizzazione della propria indipendenza.
E si può comprendere a questo proposito la posizione diametralmente opposta espressa sul tema dai rappresentanti del governo centrale madrileno sul caso scozzese, manifestata pubblicamente poco prima a Lima in Perù nel marzo 2017, ovvero che se la Scozia dovesse mai lasciare il Regno Unito, pur secondo un accordo democraticamente e legalmente stabilito con Londra, la Spagna accetterebbe sì la decisione, ma non riconoscerebbe la richiesta scozzese di rimanere nell’Unione Europea discostandosi proprio da Brexit. Il ministro spagnolo degli Esteri Alfonso Dastis, nell’occasione infatti si è così espresso in forma di epitaffio: “For Madrid, Scotland is only part of the EU if the United Kingdom is”. Ovvero — secondo Dastis — potranno anche dire di diventare indipendenti, ma nella politica internazionale per noi spagnoli esistono solo i grandi stati ottocenteschi: quindi, cara Catalogna, anche per te nessuna chance…