Le epoche di crisi hanno bisogno di strumenti per potere essere decodificate e di ideali per potere essere scavalcate positivamente, altrimenti non c’è rilancio economico o chiamata alle armi che possa superarle. Il verdetto dei “posteri”, come spiega Alessandro Manzoni, è il vero indice della vittoria e stagioni di crisi profonda, se valicate con successo, vengono poi ricordate come cicli trionfali e fasi auree.
A dispetto della narrazione storica cui ci siamo abituati, il Trecento italiano non fu un secolo irenico, piatto e monocorde. C’era conflittualità diffusa nei contesti cittadini. Non mancarono carestie ed epidemie. La società mercantile non aveva creato una redistribuzione sociale della ricchezza in senso universalistico e l’estremo frazionismo politico non era avulso dalle lotte religiose, né dalla temperie culturale del tempo. Il quattordicesimo secolo è, come ormai si riconosce ampiamente, età di passaggio: il fervore umanistico non si è ancora diffuso nel ceto intellettuale, ma molte categorie e stilemi tipici della società medievale (soprattutto di quella alto-medievale) sembrano tramontati per sempre.
L’Italia ebbe ben tre voci a raccontare quest’epoca di transito: Dante Alighieri, Francesco Petrarca e Giovanni Boccaccio. La cultura specialistica e scientifica continua a produrre lavori interessanti su questi inarrivabili letterati, non solo in Italia. L’immagine comune, però, viziata dalla retina impigrita delle associazioni facili, tende a semplificare esageratamente le “tre corone” della letteratura italiana. Dante è il campione nazionale, il poeta dell’alloro, il genio della Commedia; Petrarca è il cantore dolente di un amore con una forte componente idealistica ed esistenziale; Boccaccio è spesso ridotto a una sorta di Giamburrasca del trio, guitto che indulge nella narrazione erotica e nel racconto farsesco. Da questi luoghi comuni emerge però un Boccaccio a una sola dimensione. Si elogia acriticamente la capacità del poeta certaldese nel sapere descrivere la vita nelle sue situazioni più quotidiane, finitime, concrete, sensuali. E nulla si dice sull’eclettismo stilistico di Boccaccio, sulla tensione morale che occupa tanto le opere didascaliche in latino quanto la narrazione volgare.
Del tutto misconosciuta la sua attività politica, nonostante per fraintendimenti e rivalità, tra il 1360 e il 1365, il Boccaccio fosse stato associato alla congiura di un colpo di Stato. Cantore dell’amore, poi, attraverso il prisma di tutte le passioni umane: dall’idillio allegorico per Donna Fiammetta fino all’insoddisfazione del Corbaccio, opera tarda, dove irride la vedova che lo respinge.
La critica letteraria italiana si è sempre resa conto della poliedricità di Boccaccio, l’amico fraterno di Petrarca e contemporaneamente il letterato che imprime l’aggettivo “divino” alla Commedia dantesca. Ne è prova di altissimo livello la contesa teorica tra l’opera del De Sanctis e quella di Vittore Branca, due tra i maggiori critici italiani di ogni epoca: l’uno proteso a rivendicare la discontinuità di Boccaccio dal canone medievale e dalla sua etica prettamente religiosa, con venature pessimistiche; l’altro convinto di rintracciare una continuità intrinseca tra Giovanni Boccaccio e la cultura dell’Età di Mezzo, continuità ancor più forte perché non espressamente dichiarata.
De Sanctis intuiva che la sostanziale rivalutazione dello straordinario Decameron di Boccaccio, nei decenni successivi al Concilio di Trento, fosse conseguente a un’evoluzione in senso secolare della società e che il genio del poeta certaldese fosse più libertario e libertino dell’epoca in cui era vissuto. L’arte del racconto per resistere a una pestilenza, idea base del Decameron, era l’immagine più forte e ottimistica in un periodo in cui la sessualità spesso non trovava nemmeno la propria collocazione lirico-letteraria.
Vittore Branca, per parte propria, notava che l’afferenza di Boccaccio alla cultura medievale potesse essere sostenuta sulla base di un preciso immaginario simbolico. Il campionario di novelle del Decameron aveva la varietà e la caratura che, in modo più disarticolato e confuso, non erano però mancate alla narrativa medievale.
La partita col senso comune la vinse verosimilmente e, persino giustamente, De Sanctis e oggi onoriamo Giovanni Boccaccio come il precursore dell’Umanesimo, l’uomo che unì le culture, che fu preso a modello dai narratori e dai drammaturghi anglofoni come dagli autori teatrali spagnoli. Al di là delle contese letterarie, in ogni caso, quello che oggi manca del talento di Boccaccio è soprattutto la sua spregiudicata e lucidissima capacità di visione: l’intellettuale che si siede sul proscenio del mondo, al crocevia delle epoche. Per preconizzare il domani, probabilmente, ma certo non per tradire il passato. Ieri e il futuro per Boccaccio erano uniti dal nome della poesia, come è scritto a imperitura memoria sulla sua lapide. “Studium fuit alma poesis”.